Domenica 2 gennaio, il sergente Yvonne Huynh e il brigadiere Loïc Risser, appartenenti al Secondo Reggimento di Ussari di Haguenau, sono stati uccisi dall’esplosione di un ordigno esplosivo improvvisato (Improvised Explosive Device – IED) mentre conducevano una pattuglia di ricognizione a bordo di un VBL (Véhicule Blindée Lèger) nella regione di Ménaka, in Mali. Il tragico evento segue a breve distanza quello accorso nella giornata di lunedì 28 dicembre, quando altri tre militari francesi erano stati uccisi in Mali, anch’essi travolti dall’esplosione di un IED mentre conducevano una missione di scorta col loro VBL. Con gli ultimi decessi, sale a 50 il numero di soldati francesi che hanno perso la vita nel Sahel a partire dal 2013, anno in cui è stata lanciata l’operazione Serval, poi divenuta Barkhane.
Serval e Barkhane: perché la Francia combatte in Mali.
La Francia decideva di intervenire in Mali il 10 gennaio 2013, quando si era resa conto che l’offensiva scatenata dal MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad), gruppo nazionalista Tuareg, insieme ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) e altri due gruppi islamici locali, aveva ormai raggiunto la città di Konna, città situata al centro del paese e distante appena 48 ore da Bamako, la capitale. Per fermare l’offensiva, la Francia, che già disponeva di alcuni assetti nella regione, impiegava subito la task force Sabre, formazione di forze speciali francesi schierata nel Sahel dal 2008. L’allora Presidente Hollande affermerà l’11 gennaio che gli obiettivi della Francia erano: fermare l’aggressione terrorista, mettere in sicurezza il Paese – dove peraltro si trovavano all’epoca più di 6.000 francesi – e ristabilire l’integrità territoriale del Mali. Lo stesso giorno, le prime truppe convenzionali francesi – un Sous-Groupement Tactique Interarmes (SGTIA) composto da 200 uomini – arrivava in Mali dal Ciad.
L’offensiva francese, iniziata il 15 gennaio, mirava alla riconquista di Gao e Timbuctu, le più grandi città del nord del Mali. A fine aprile l’offensiva francese era sostanzialmente esaurita e l’attività dei militari di Parigi nell’area si era ridotta alla ricerca e all’eliminazione delle ultime sacche di resistenza. A maggio iniziava la fase di transizione, col progressivo passaggio delle responsabilità alle autorità del Paese. Il 1° agosto 2014 terminava l’Operazione Serval ed aveva inizio l’Operazione Barkhane, con un contingente molto ridotto rispetto a quello schierato a inizio 2013. In totale, all’Operazione Serval avevano preso parte circa 4.000 uomini ed i morti francesi erano stati 9.

L’approccio di Barkhane – che al momento del lancio poteva contare su un contingente composto da 3.000 militari – era, ed è tuttora, del tutto diverso da quello di Serval: se la prima era stata una missione condotta per arrestare l’offensiva islamica proveniente dal nord del Mali e riguadagnare il controllo del Paese, la seconda aveva una duplice missione: appoggiare le forze armate dei Paesi partner della Francia – quelli che compongono il cosiddetto G5 Sahel, ovvero Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina-Faso – nella lotta contro i gruppi armati terroristi e contribuire ad impedire la ricostituzione di santuari terroristi nella regione.
L’evoluzione di Barkhane.
Fino al 2015, la situazione rimaneva relativamente tranquilla in Mali. I gruppi islamici erano stati cacciati dal Paese e si stanno riorganizzando per affrontare il nemico in un modo diverso. Da quell’anno, tuttavia, l’attività dei gruppi terroristi si andava intensificando e Parigi era costretta ad aumentare progressivamente le forze schierate nell’area.
Il 2019 rappresenta un anno di svolta per le operazioni francesi nel Sahel. Nel novembre del 2019 perdono la vita in un incidente aereo 13 militari dell’Armée: è la più grande perdita di truppe francesi in un solo giorno dal 1983, quando 58 francesi persero la vita a Beirut, in Libano a seguito di un devastante attacco dinamitardo. La grave perdita dà vita a un dibattito importante in Francia: il Presidente Macron deve dare un segnale e decide di procedere con un cambiamento di strategia. Il Ministro della Difesa, Florence Parly, decide di inviare ulteriori 600 soldati in Mali, dando il via a una nuova fase dell’operazione, più aggressiva.
L’aumento del volume delle forze francesi, accompagnato dall’inserimento nel teatro operativo di alcuni nuovi assetti importanti, come i droni Reaper armati, permette una rinnovata intensità delle operazioni. Il summit di Pao, a inizio 2020, sancisce la rinnovata dinamicità dell’azione, oltre che la creazione della coalizione per il Sahel, che i paesi del G5 Sahel e l’Unione Europea hanno lanciato ufficialmente il 28 marzo scorso. Al summit di Pao, la Francia ha ribadito gli obbiettivi della sua azione: combattere la minaccia terrorista nella regione, formare gli eserciti nazionali dei Paesi del G5 Sahel, favorire il ritorno dei servizi statali nella regione, sostenere lo sviluppo del Paese.

Conseguentemente alla rinnovata dinamicità dell’azione francese, le perdite di Parigi cominciano ad aumentare di nuovo. Se dall’estate del 2013 (ovvero dalla fine dell’offensiva francese condotta nell’ambito dell’operazione Serval) a novembre 2019 (quando si verificò il tragico incidente elicotteristico) i francesi hanno perso 23 uomini, ovvero in media uno ogni 3 mesi, dal dicembre 2019 al gennaio 2021 sono tredici i soldati che cadono combattendo (ovvero circa uno ogni mese e mezzo): dieci colpiti da IED, due morti in incidenti e uno in combattimento ravvicinato.
Come vincono i terroristi e come vince la Francia.
La guerra che la Francia conduce in Mali contro le formazioni terroriste islamiche non si pone l’obiettivo di eliminare le cause che hanno permesso la nascita e la crescita dei gruppi jihadisti nel territorio. Esse hanno radici profonde la cui soluzione non può essere fornita dalle Forze Armate di un Paese straniero, ma richiede una risposta olistica che venga portata avanti dalle istituzioni locali. Alle Forze Armate Francesi, dunque, non resta che attaccare le forze nemiche, con l’obiettivo di indebolirle il più possibile, per far sì che le forze di sicurezza locali possano prendere in mano le redini della situazione in maniera autonoma. I jihadisti che combattono le forze francesi mirano anch’essi a indebolire l’avversario, cercando di fare il maggior numero di morti possibile, in quella che diventa, per questo motivo, una vera e propria guerra di usura. Se le strategie sono le stesse – eliminare il maggior numero di soldati nemici – ciò che cambia sono gli obbiettivi. Mentre di quelli francesi si è già parlato, quello dei terroristi consiste nell’obbligare la Francia a rinunciare alla sua azione in Mali. Per farlo, le forze jihadiste puntano sulla vulnerabilità più grande di Parigi: la capacità di sostenere un alto numero di perdite umane.

Proprio questo ci permette di capire perché i recenti eventi accorsi in Mali rischiano di mettere a serio rischio la tenuta dell’operazione. La morte di cinque soldati francesi nel giro di una settimana infatti colpisce la Francia nel suo punto più vulnerabile. Il tasso di approvazione della missione Barkhane, per usare le parole di Michael Goya, ex Colonnello dell’Esercito francese e ora analista militare di primo piano in Francia, rappresenta il centro di gravità della Francia. Se i gruppi jihadisti operanti in Mali riescono a portare il tasso di approvazione al di sotto della soglia critica del 50%, dice Goya, il ritiro, nel breve termine, diventa inevitabile. Ecco quindi la missione principale del nemico: infliggere perdite ai francesi, e durante la scorsa settimana ci sono riusciti benissimo.
In effetti, militarmente la Francia è di gran lunga superiore alle forze jihadiste. Il rapporto tra morti francesi e morti appartenenti ai gruppi terroristi è stato di 1 a 80 durante la prima fase di Serval, di 1 a 20 fino al 2020, di nuovo di 1 a 80 dopo il surge voluto da Macron. Sul tasso di approvazione incide anche il costo dell’operazione, che oggi si attesta a circa 911 milioni di euro. Ma le forze jihadiste locali sono molto più abituate a vedere i loro uomini cadere, dunque sono capaci di sostenere un volume di perdite molto più alto. È questo il loro fattore di superiorità più grande.
L’importanza dei morti
Fino ad ora, il Governo non ha mai dovuto affrontare grandi opposizioni politiche per giustificare la permanenza del contingente francese in Mali, né da parte dei cittadini francesi, né da parte dei cittadini malesi – da notare, a proposito, che il contingente francese non è l’unico presente in Mali, essendo esso affiancato dal contingente dell’ONU, peraltro molto più numeroso, con l’operazione MINUSMA, e da quello dell’Unione Europea, con l’operazione EUTM Mali. Nemmeno la nuova leadership militare instauratasi in Mali dopo il colpo di stato ha messo in dubbio la permanenza delle truppe francesi sul suolo malese. D’altronde, la Francia ha subito diversi morti nel Sahel. Ma la morte di un soldato può essere considerata accettabile dall’opinione pubblica se percepita come utile a qualcosa. Nei primi mesi dell’operazione Serval, la Francia, si è detto, certamente subì importanti perdite (23 uomini), ma a fronte di risultati concreti: l’offensiva jihadista era arrestata, Gao e Timbuctu liberate. Poi, l’operazione ha cominciato a divenire più statica e i risultati meno tangibili, misurabili solamente in termini statistici (morti francesi vs morti jihadisti), con l’ovvio risultato che la percezione di veder morire i propri concittadini senza alcun risultato sia cominciata a diffondersi maggiormente in Francia.
Ciò che determina la dimensione strategica dell’evento, incrementando moltissimo la velocità con cui si diffonde questa percezione in madrepatria, è la dimensione temporale dei fatti. Una cosa è perdere cinque uomini in cinque mesi, una cosa è perderne cinque in una settimana. Nel secondo caso, l’impatto delle perdite causa conseguenze molto maggiori.
Quello accorso il 2 gennaio è quindi un duro colpo per la Francia. In una settimana Parigi ha perso cinque uomini, un bilancio pesantissimo per un Paese che affronta, proprio in questo periodo, un dibattito importante in merito all’eventuale chiusura dell’operazione. La Francia, come si è detto, ha subito diversi morti in Mali, ma i recenti eventi rappresentano un triste record per Parigi. Se si eccettua l’incidente del 25 novembre 2019, quando due elicotteri francesi si scontrarono in volo, provocando la morte di 13 soldati, Parigi non aveva mai subito così tante perdite tutte insieme. Il bilancio più grave risale al 12 aprile 2016, quando tre militari francesi furono uccisi da un IED.
Diamo uno sguardo alla storia. Solamente sette volte in 59 anni, a partire dall’imboscata di Bedo in Ciad nel 1960, la Francia ha perso cinque o più uomini in combattimento in un solo giorno. Tutti e sette sono stati giorni “strategici”, ovvero eventi che hanno provocato il nascere di grandi dibattiti e interrogazioni sulle operazioni in corso. In due casi, in Libano nel 1983 (58 morti) e in Afghanistan nel 2008 (10 morti), hanno causato o accelerato il processo di ripiegamento del contingente schierato. È avvenuto anche in Mali, nel novembre 2019 in Mali, e anche in quel caso l’impatto sull’operazione è stato strategico, con la decisione di inviare ulteriori 600 militari e il cambio di strategia.
Ecco, i cinque morti francesi della scorsa settimana potrebbero dare la scossa fatale al tasso di approvazione dell’operazione.
Ora cosa accadrà?
Difficile dire cosa accadrà alla missione Barkhane, anche se il fatto che a due giorni dall’attentato il Ministro della Difesa francese, Florence Parly, abbia già annunciato il ritiro dei 600 militari schierati a inizio gennaio, parla da solo.
Parigi difficilmente ritirerà tutto il suo contingente. Oltre al fatto che significherebbe abbandonare a sé stessi gli stati alleati del G5 Sahel, che continueranno a subire gli attacchi dei gruppi islamisti, il ritiro sarebbe un’ammissione di sconfitta molto evidente. Aumentare ulteriormente il contingente è fuori discussione, visto che il Ministro Parly ha già optato per la via opposta.
Di recente diversi esponenti della politica e delle forze armate francesi avevano lasciato intendere che un aiuto più consistente da parte dei partner europei sarebbe stato molto ben accetto. Il 27 marzo è stata lanciata ufficialmente la Task Force Takuba, raggruppamento di forze speciali europee creato con lo scopo di contrastare le forze terroristiche nel Sahel, dunque in grado di agire in supporto all’operazione Barkhane. I vertici militari francesi hanno più volte evidenziato come il supporto della Task Force Takuba sarebbe un grande ausilio per l’operazione, soprattutto per la sua componente elicotteristica, a cui l’Italia dovrebbe contribuire con una componente di forze speciali accompagnata da elicotteri Chinook CH-47F, UH-90. Una riduzione del contingente (già in atto) unita ad un maggiore supporto da parte dei partner di Parigi resta forse una delle opzioni più probabili.