Dispute sulla “face recognition”
Google, nella sua lunga egemonia, ha perfezionato una serie di servizi, che hanno agevolato l’utente in una moltitudine di potenziali situazioni. Per fare un esempio, che si ricollega a quanto vi racconterò a breve, ha creato Google Foto. Con tale applicazione l’utente ha la possibilità di organizzare le proprie foto, raggruppandole in una libreria personale, sulla base di volti e fisionomie simili. Funziona in questo modo: quando un utente, tramite il suo account, carica una foto nel servizio, Google Foto rileva le immagini dei volti. Pertanto, a seguito della rilevazione, crea un modello, per ciascun volto nella foto. Riesce cosi a catalogare ed ordinare le foto di quell’account, secondo la presenza dei “volti similari”, al pari della catalogazione, effettuata nell’Iphone, sulle immagini salvate.
Nel marzo 2016, Joseph Weiss e Lindabeth Rivera hanno denunciato Google. Infatti, sostenevano che, attraverso tale funzione di raggruppamento, la società di Alphabet avrebbe raccolto e mantenuto i propri “identificatori biometrici” e “informazioni biometriche”, (come definito dal BIPA, l’Illinois Biometric Information Privacy Act, uno statuto che disciplina le “scansioni” di “geometria del volto” e altre “informazioni biometriche” e “identificatori biometrici”), senza consenso scritto. Nello specifico, il primo aveva effettivamente un account Google Foto, nel quale aveva caricato delle immagini. La Rivera neppure aveva un account o fruiva del servizio, semplicemente un amico aveva caricato una foto, in cui lei era presente!
Sia Weiss che Rivera affermavano di non aver mai acconsentito alla raccolta dei loro “identificatori biometrici”. Pertanto, la raccolta e la conservazione dei loro dati, senza il loro consenso, costituivano un danno in sé, pur non denunciando alcun tipo di danno collaterale, finanziario, emotivo, o reputazionale. In virtù di quest’ultima considerazione, il tribunale ha ritenuto che la mera conservazione dei dati biometrici per il riconoscimento, non integrasse una violazione più grave. Infatti, quegli stessi dati non risultavano essere stati condivisi con società terze o entità esterne. Il tribunale, inoltre, rilevava che il caricamento delle foto, da parte dei querelanti, era stato volontario, e solo a scopo “utilitaristico” per l’utente. Nella operazione non erano stati riscontrati fini commerciali o di marketing della società fornitrice.
In conclusione, poiché il danno sarebbe il risultato di una semplice collezione e non di una divulgazione, il 29 dicembre 2018, Google è emersa vittoriosa nella lunga class action sulla privacy, Rivera vs Google. Pertanto, il tribunale, ritenendo che i ricorrenti non avessero dimostrato un pregiudizio sufficiente, ha archiviato il caso.
Ora, una considerazione è d’obbligo: di quanto si sposta l’asticella del limite da non superare, da parte dei colossi BigTech, e non solo, per rispettare la nostra privacy? Diventiamo tutti, con la pigrizia e la totale dipendenza dalla tecnologia, corresponsabili della perdita di un’auspicata “privacy ambientale”? O, come giustamente rileva l’attivista Maciej Ceglowski, “L’infrastruttura della sorveglianza di massa è troppo complessa e l’oligopolio tecnologico troppo potente per rendere significativo parlare del consenso individuale“?
E mi affiora spontanea un’altra domanda: perché, invece, Facebook ha dovuto cambiare la regulation sul tag nelle foto, che avviene tramite riconoscimento facciale (per il quale ora verrà richiesto, tramite opt-in, un consenso esplicito)?. E tutto questo ridosso di una class action del 2015, proprio per violazione di quello stesso BIPA, che invece, pur chiamato in causa nel contenzioso sopracitato, ha invece risparmiato Google? Si deve quindi cominciare a pensare che anche qui esistano due pesi e due misure? E su quali basi? Perché Google Foto è un servizio di utility, mentre Facebook e un social media? Un po’ fragile come distinzione, se la privacy è l’obiettivo primario da salvaguardare! Soprattutto tenendo presente che i due casi si sono svolti sempre nella contea dell’Illinois!
Ve ne dico un’altra. Una recente sentenza britannica ha creato un precedente: la “face recognition” diventa legittima, se fatta dalla polizia, e non violerebbe la privacy. Ed Bridges, coadiuvato da una raccolta fondi pubblica, aveva intentato causa per bloccare l’uso di sistemi di vigilanza che utilizzassero questa tecnologia, cioè l’utilizzo degli indicatori biometrici. Per il giudice, la circostanza che tale sistema sia gestito dalla pubblica autorità né scongiurerebbe l’abuso. Viceversa, il legale del querelante, ha sostenuto che l’applicazione in beta test, di tale sistema , durante una giornata di shopping natalizio del cliente, avrebbe turbato non poco la serenità di quest’ultimo.
Il giudice ha aggiunto che la sicurezza dei cittadini passa anche attraverso la sperimentazione di nuove tecnologie e, pertanto, occorrerà abituarsi a test di conformità e conseguentemente, al suo utilizzo costante.
D’altro canto, le nuove normative e relativi controlli per tutela della privacy stanno mostrando i loro frutti. Non solo sono aumentati i controlli sui colossi digitali, ma è stata innalzata la soglia di sorveglianza ed interesse degli utenti. Il business di Big G, si sa, è la pubblicità, e di fronte ai nuovi sistemi antitracciamento dei browser Apple e Firefox, Google mostra un cambio di rotta, e si mostra alleato della privacy e della trasparenza.
Come? Big G, semplicemente, vuole incentivare il pubblico a farsi mostrare le pubblicità più pertinenti, magari attraverso token crittografici a favore degli utenti, che potrebbero finalmente dare un valore alla loro privacy ed essere remunerati per ricevere “spot” utili nella navigazione! Google vuole anche allargare questa sua nuova “politica”, affinché possa standardizzarsi e, in questa maniera, contrastare il sistema anti cookies adottato dalle Bigtech concorrenti.
Del resto è notizia delle ultime ore, che in seno al Senato americano si stiano risvegliando, da parte della Commissione Antitrust, sospetti che i colossi digitali, acquisendo start up innovative e di piccole dimensioni, stronchino sul nascere una eventuale competizione nel settore. In tal modo accrescano, al contempo, la loro “potenza di fuoco”; nel mirino di differenti soggetti dell’ordinamento americano, a rotazione, sono passati Big G, Amazon, Facebook ed Apple. C’è quindi una ferma e decisa presa di posizione, per capire se tali aziende limitino o addirittura ostacolino la libera concorrenza del mercato, e si sta cercando, sebbene la strada da percorrere non sia semplice e quindi di lunga gestione, un coordinamento tra le varie autorità federali, per riunire le rispettive indagini, e avere un quadro finale, completo e coerente. Già da questo mese, la maggioranza dei procuratori generali degli Stati americani, sta preparando una investigazione su Google, per violazione della concorrenza e in materia di privacy; i rappresentanti del colosso si son detti prontissimi a collaborare, per poter dare tutte le risposte di cui i giudici dovessero aver bisogno.
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