Il Sahel è arrivato inaspettato nella politica europea e si è imposto anche nelle riflessioni della politica estera italiana, rievocando parallelismi e fantasmi ad ormai pochi mesi dai 20 anni dell’inizio della Guerra al Terrore, di cui ci si chiede se il simbolico ritiro dall’Afghanistan, il più lungo impegno militare degli USA e della NATO, segni la fine di una narrazione, di una strategia, o soltanto una pausa di uno scontro ancora lungo. Ecco che si riaffacciano i ricorrenti spaventapasseri: gli eserciti al soldo delle multinazionali degli idrocarburi, le occupazioni “manu armata”, l’esportazione di democrazia, che rischiano di creare un nuovo ciclo di incomprensioni con l’opinione pubblica italiana e di tutta europa. Al tradizionale impegno francese nella regione, infatti, sulla scia di una collaborazione non solo finalizzata a fronteggiare il pericolo del terrorismo, ma anche il traffico di esseri umani, si sta affiancando una postura sempre più onnicomprensiva alla collaborazione e al supporto da parte di tutti gli stati dell’Unione Europa, oltre che tramite la creazione della Task Force congiunta Takuba, di cui l’Italia fa parte, avendo raggiunto, proprio in questo giorni, la Initial Operational Capabilities (IOC) del proprio contingente, anche con iniziative di sviluppo economico sempre più capillari.

E’ proprio per evitare le passate incomprensioni e comprendere la singolarità e le sfide di quest’area, così vasta, fragile e complessa, che può essere utile vedere in dettaglio i fatti di che hanno interessato il villaggio di Aguelhoc, nella regione di Kidal, nel nord del Mali, tramite la voce di un ufficiale, familiare con la questione, appartenente alle forze antiterrorismo dell’MNLA (movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad). Oltre alle forze Francesi della missione Barkhane, di cui tuttavia il Presidente Macron ha annunciato il ridimensionamento a favore della task force multinazionale Takuba, in Mali opera anche la missione ONU di Peacekeeping del contingente MINUSMA, una missione che vede impegnati numerosi stati, soprattutto africani, per un totale di più di 13.000 operatori. Proprio nel villaggio di Aguelhoc, a ridosso del centro abitato, si trova un campo di MINUSMA, formato da militari del Chad, che è al centro di numerose accuse fatte dai rappresentanti della società civile e dalle associazioni tuareg della zona. Per la vicinanza del contingente alle abitazioni (si trova a circa 300 metri da una scuola e a poco più di 100 dalle case più vicine), i ripetuti attacchi da parte delle formazioni jihadiste hanno portato numerosi danni collaterali alle abitazioni civili, anche a causa del comportamento del contingente che per le scarse capacità di intelligence, ma, secondo l’opinione della fonte, anche per mancanza di volontà, si è occupato solo della difesa del perimetro del campo, senza proteggere adeguatamente i civili. Inoltre, dopo l’attacco del 4 Aprile, il contingente MINUSMA avrebbe portato avanti una serie di arresti arbitrari e esecuzioni sui civili, accusati di essere complici con i terroristi, oltre a distruggere delle abitazioni e, stando ad alcune testimonianze, aver perpetrato violenze sessuali contro alcune donne del villaggio. La situazione si è ulteriormente aggravata nei primi giorni di Giugno, quando un altro attacco, dove hanno dovuto partecipare anche caccia francesi, uccidendo un esponente di Al Qaeda, Baye Ag Bakabo, ha costretto quasi tutti gli abitanti del villaggio a fuggire dalle loro abitazioni, e, ad oggi, molti di loro rimangono ancora sfollati, temendo per la loro sicurezza, correndo il rischio di non poter avere in questi alloggi di fortuna una adeguata protezione dalla malaria, ad elevato rischio in questo periodo, e rendendo difficile lo svernamento del bestiame. Il contingente MINUSMA ha inoltre costruito numerosi terrapieni e posto filo spinato attorno al centro abitato e questo, sebbene possa garantire un certo grado di protezione, sta mettendo in pericolo il bestiame, principale fonte di sostentamento degli abitanti, e esponendo il centro abitato a rischio di inondazioni durante la stagione delle piogge per ostacolo al deflusso dell’acqua piovana.
Di fronte a questi soprusi numerose proteste hanno attraversato tutto il nord del Mali ed in particolare la regione di Kidal, chiedendo una investigazione da parte del capo della missione MINUSMA, el-Ghassim, e la delocalizzazione del campo a qualche chilometro dal centro abitato. A fare da cassa da risonanza e rappresentanza politica all’istanza si è fatto avanti il Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad (CMA), il movimento politico che si è formato dall’evoluzione in senso maggiormente istituzionale delle milizie dell’MNLA, che, proprio in questi giorni, sta portando avanti delle negoziazioni con i rappresentanti di MINUSMA per ottenere la delocalizzazione. In particolare si deve sottolineare, a complicare la situazione dei negoziati, l’esistenza di una terza formazione armata, il GATIA, che mantiene una piccola presenza ad Aguel’hoc sfruttando la protezione di MINUSMA, ed il fatto che il governo centrale, dove da poco il Colonnello Goita ha riappuntato a sé i pieni poteri, si sta tenendo fuori dalla questione, sia per non entrare in rotta di collisione con l’ONU, visto il già scarso sostegno internazionale, sia per saggiare il reale peso politico del CMA, che da sempre pretende maggiore indipendenza nel Nord del Mali e che ha chiesto in cambio della collaborazione con il governo di Bamako, la protezione dei propri interessi.

L’Italia ha fatto anticipare all’arrivo dei propri uomini sul campo la promozione della firma degli Accordi di Roma, cui l’ufficiale che ha collaborato a quest’articolo ha partecipato, che hanno avuto il ruolo importante di creare una cornice di dialogo per tutte le sigle tuareg dell’area, al fine di evitare pericolosi fronti interni. Questo ha promosso l’immagine dell’Italia, sottolineando ancora una volta l’importanza di un approccio ibrido, che metta davanti a tutto la sicurezza dei civili e la collaborazione con le istituzioni locali, nel rispetto dei costumi e delle tradizioni del luogo. E’ fondamentale, infatti, impedire che gli jihadisti trovino spazio per creare un solco tra i contingenti stranieri e la popolazione locale, come potrebbe rischiare di succedere ad Aguelhoc se il contingente chadiano decidesse di ritirarsi da quella posizione avanzata e così pericolosa, verso una più sicura. I fatti di Aguelhoc, dunque, sono un importante caso di studio per comprendere le peculiarità della missione Takuba e dell’impegno italiano nella regione e delle sfide che questo comporta.