La presenza americana nelle zone del nord-est siriano attraverso l’operazione “Inherent Resolve” (OIR) è spesso motivata da giornali e opinione pubblica attraverso la volontà di Washington di non permettere al Governo siriano di Bashar al-Assad di riacquistare il controllo dei pozzi petroliferi situati sulla sponda orientale dell’Eufrate, lasciandoli nelle mani delle milizie affiliate alle Syrian Democratic Forces (SDF), unione di vari gruppi alleati alle forze della Coalizione, soprattutto legate all’etnia curdo-siriana, in modo da poter ottenere facilmente greggio per il proprio fabbisogno.

Ma può essere davvero questo un motivo abbastanza forte per sostenere l’attivismo statunitense nel territorio siriano, con il mantenimento di diverse basi e avamposti in cinque governatorati siriani, lunghi pattugliamenti delle principali vie di comunicazione siriane con un crescente attivismo delle potenze rivali (Iran, Russia, Turchia) e la crescente insofferenza, sia della popolazione locale che dell’opinione pubblica domestica, soprattutto dopo lo sbandierato e prematuro annuncio della sconfitta dell’ISIL nel marzo del 2019?
La situazione pre-2011

Prima di rispondere a questo quesito bisogna avere presente quale fosse la situazione dell’estrazione del petrolio siriano prima dello scoppio della guerra civile. Infatti, l’instabilità ha ridotto di molto le capacità estrattive del Paese.
La Siria è l’unico paese della zona del Levante mediterraneo (Giordania, Israele, Libano, Territori Palestinesi) a possedere riserve terrestri di idrocarburi. Nonostante ciò, la produzione di petrolio e gas naturale è sempre stata modesta, attestandosi allo 0,5% della produzione mondiale, generando 3,2 miliardi di dollari pari al 25% circa del bilancio statale al 2010. Il settore petrolifero è peraltro ostacolato dalla qualità del greggio siriano, in larga parte pesante e ad alto contenuto di zolfo, difficile e costoso da raffinare e dalla mancata capacità di raffinazione dello stesso, a parte alcuni ridotti impianti sulla costa. La Repubblica Araba di Siria è infatti un esportatore di petrolio grezzo, ma un importatore per quanto riguarda i suoi derivati, con uno squilibrio della bilancia dei pagamenti di 100 milioni di dollari al 2006.
Il trend prima del 2011 mostrava inoltre una diminuzione della produzione accompagnata da un aumento dei consumi, che avrebbe portato la Siria a diventare nel giro di pochi anni un importatore anche di petrolio greggio.
Per invertire questa tendenza la Syrian Petroleum Company (SPC), la compagnia petrolifera controllata dal Ministero per il Petrolio e le Risorse Minerarie siriano, era riuscita ad attrarre alcuni investimenti europei e statunitensi, per la costruzione di raffinerie, l’esplorazione di possibili giacimenti e l’apertura di altri pozzi, che si sono però bruscamente interrotti con lo scoppio della guerra civile e le sanzione imposte dagli USA. La situazione per quanto riguarda il gas naturale è simile, con una parte re-iniettata per l’estrazione petrolifera, il resto utilizzata per la produzione elettrica, con la necessità di importare piccole quantità per soddisfare la domanda interna, quantità che sarebbero state destinate a crescere nel lungo periodo per soddisfare l’incremento della domanda.
La guerra civile

Su questo panorama già non roseo si è abbattuta la guerra civile che, come già detto, ha imposto uno stop ai progetti di investimento domestici e stranieri nonché ha posto molti dei pozzi sotto il controllo dei vari gruppi islamisti e della galassia variegata dell’opposizione siriana, separandoli dai terminal degli oleodotti e dalle raffinerie sulle coste rimaste, invece, sotto il controllo del governo di Damasco e dei suoi alleati.
Peraltro, questa situazione non ha impedito che fiorisse un mercato nero del greggio fra i territori controllati dall’opposizione e la Turchia, più che altro dettato dalla necessità di quest’ultima di ottenere un minimo ritorno immediato in cambio del suo supporto finanziario e logistico, nonché fra i territori controllati dall’opposizione e quelli governativi per soddisfare la domanda della popolazione, su cui hanno lucrato personaggi di vario spessore ed importanza tra i quali l’ora decaduto cugino di Bashar al Assad, Rami Makhlouf.
Dopo l’inizio dell’OIR nel 2014 e l’avanzata delle SDF fino al giorno d’oggi, la situazione non è molto mutata: i pozzi tenuti al minimo, necessità di importare per soddisfare il fabbisogno interno, oleodotti separati ed una generale carenza di greggio e prodotti derivati.
Gli approvvigionamenti americani e la Siria come punto di snodo
Il solo fatto che i pozzi sotto il controllo della Coalizione siano tenuti al minimo conferma che gli interessi statunitensi vadano molto al di là dell’estrazione del greggio, ma anche tutta un’altra serie di fattori indicano questo: primo fra tutti che gli USA possano disporre di petrolio in modo molto più sicuro e in quantità molto più abbondanti da altri Paesi della zona, come ad esempio gli stati del Golfo e l’Iraq, ma recentemente e in modo molto più massiccio dai suoi vicini continentali, soprattutto il Canada.
Secondo, il fatto che gli Stati Uniti possano ormai considerarsi autosufficienti sotto il profilo della produzione di greggio, con le importazioni ridotte al 3% contro un imponente 94% di produzione interna. Quale necessità spingerebbe allora gli USA a mantenere la loro presenza in un’ampia zona della Repubblica Araba di Siria senza alcun visibile ritorno economico? La risposta giace nel ruolo che la Siria ha avuto per secoli: la tappa finale delle rotte che dall’Oriente arrivano al Mediterraneo, rendendola uno snodo strategico che, ancora oggi, riveste una funzione di cardine fra il Mar Mediterraneo e il profondo Medio Oriente, fra la Penisola Arabica e le zone dell’Anatolia e del Caucaso.

verde scuro l’arteria passante per il valico di frontiera Abu Kamal/al-Qaim
Ciò si rispecchia nelle svariate proposte di progetti, in realtà raramente andati oltre a delle linee tracciate sulle mappe, per collegare i giacimenti del Golfo Persico al Mediterraneo o alla Penisola Anatolica, per poi approdare in Europa. Ma si può trovare un riscontro molto più concreto nelle principali strade siriane, ad esempio la M2, che proviene da Beirut e prima ancora dall’Iran, portando a Damasco, e infine a Beirut in Libano, oppure la M4, che passa per Mosul per poi arrivare ad Aleppo e a Latakia, passando per la rinomata Idlib. Non a caso gli attriti fra i vari attori, statali e non, e le basi statunitensi si distribuiscono proprio lungo queste arterie fondamentali.
Fra i vari litiganti l’egemone gode
Il posizionamento delle forze statunitensi rispecchia la strategia di fondo della superpotenza per il Medio Oriente: impedire alle potenze regionali, specialmente rivali ma anche alleate, di acquisire una posizione dominante rispetto agli altri. Per ottenere ciò gli USA mantengono in costante conflitto i vari attori medio-orientali, intervenendo allorquando gli equilibri di forza sono troppo accentuati verso l’uno o l’altro. Questo è il caso dell’intervento americano nel nord-est siriano, diretto specificatamente contro la Turchia e l’Iran.

Per quanto riguarda la Turchia, gli Stati Uniti offrono supporto e protezione a quella che i Turchi considerano come una minaccia esistenziale: le forze curdo-siriane, neanche troppo nascoste dietro la facciata di multi-etnicità delle SDF. Queste infatti sono legate a doppio filo al PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che da tempo porta avanti un conflitto a bassa intensità contro le forze turche nella regione. In questo modo gli USA mantengono il controllo su una spina nel fianco della Repubblica Turca, impedendole inoltre di espandere la sua influenza nel nord della Siria, nonostante le diverse operazioni militari lanciate da Erdogan. Dall’altro lato, la volontà del regime siriano di riconquistare le zone sotto controllo curdo spinge al-Assad al tavolo dei negoziati con le SDF, irritando la Turchia e impedendo un’alleanza fra i due Stati, come era stato per il Trattato di Adana del 1998, nato proprio in funzione anti-curda. Stante la situazione, la Turchia non può impiegare tutte le sue energie nella sua espansione nel Mediterraneo orientale, dovendo occuparsi delle minacce che si presentano dentro e fuori i suoi confini più prossimi.
Sebbene l’alleanza-rivalità con la Turchia sia una preoccupazione non secondaria per gli strateghi degli Stati Uniti, il vero obbiettivo dello schieramento occidentale in Siria è senza dubbio l’Iran. La necessità fondamentale è infatti quella di impedire l’ulteriore espansione dell’influenza iraniana in Siria, inficiando il progetto della Repubblica Islamica di un corridoio sciita che da Teheran porti direttamente a Beirut, passando per l’Iraq e per, non serve neanche dirlo, la Siria, attraverso un sistema di governi, partiti e milizie vicine all’Iran, arrivando infine al Mediterraneo, scavalcando i “colli di bottiglia” marittimi di Hormuz, Bab al-Mandab e Suez. Per fare ciò gli USA puntano a separare il confine siro-iracheno dai territori sotto il controllo governativo, che altrimenti diventerebbe un comodo punto di passaggio per uomini e armi di milizie affiliate all’Iran. Per questo motivo, l’US Army mantiene un presidio al valico di frontiera di al-Tanf/al-Walid, nel sud della Siria, lungo l’autostrada M2, che da Beirut passa per Damasco, poi per Baghdad e, infine, arriva a Teheran, creando un tragitto breve e sicuro tanto da essere rinominata “l’autostrada sciita”.

Assad
Allo stessa modo, la autostrada M4 è resa inutilizzabile per il fatto che il suo controllo è spezzettato fra SDF, milizie vicine alla Turchia, Forze Armate turche e Governo siriano. In questo modo l’Iran è costretto a passare per l’unico valico aperto, quello di Abu Kamal/al-Qaim, sulla riva occidentale dell’Eufrate, facilmente controllabile dall’altra riva, sotto controllo statunitense, ed esposto alle sortite delle cellule ISIL ancora presenti nella vasta area desertica che si estende nelle zone meridionali di Siria e Iraq.
Conclusioni
L’esempio siriano ci dimostra come in realtà le motivazioni degli attori che si muovono per il Medio Oriente siano molto meno legate al controllo delle risorse naturali della zona, che seppure siano ingenti e costituiscano spesso fonti di reddito fondamentali, non rappresentano l’obiettivo strategico perseguito e come, invece, rivesta un’importanza fondamentale il controllo delle rotte e degli snodi logistici terrestri e marittimi, con gli Stati Uniti che costringono i propri rivali ad attraversare il mare aperto di cui rimangono gli incontrastati padroni, e i vari candidati all’egemonia regionale che spingono per creare spazi sicuri che gli permettano di concentrarsi sulla lotta contro il Numero Uno planetario.
Da questa analisi sono state volutamente escluse le due potenze di rango globale, Russia e Cina, che pure agiscono in Siria e in tutto il Medio Oriente, a favore dello studio del comportamento più definito degli attori regionali e del loro rapporto con gli Stati Uniti, e di come le motivazioni alla base delle loro operazioni siano spesso differenti rispetto le semplificazioni diffuse a livello di pubblico e di giornalismo meno specializzato.
Bibliografia:
-EIA Country Analysis Brief Syria, https://www.eia.gov/international/content/analysis/countries_long/Syria/archive/pdf/ syria_2011.pdf
-EIA Oil imports and exports, https://www.eia.gov/energyexplained/oil-and-petroleum products/imports-and-exports.php
-Syria oil reserves, production and consumption statistics, https://www.worldometers.info/oil/syria-oil/
-The Arab Weekley, Washington fights to stay in Syria game from isolated base, https://thearabweekly.com/washington-fights-stay-syria-game-isolated-base
-Inside Over, Cos’è il Trattato di Adana, https://it.insideover.com/schede/politica/cose-il trattato-di-adana.html