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La difesa aerea in Occidente: sfide e problemi

I recenti conflitti cui abbiamo assistito in Nagorno-Karabakh, in Ucraina, in Libia, in Siria e in Yemen mostrano come il controllo della terza dimensione, quella aerea, non possa più essere dato per scontato. In futuro, dovremo batterci per ottenere la superiorità dello spazio aereo. E dovremo saperci difendere da ciò che arriverà dall’alto, perché ora non sappiamo farlo.

L’evoluzione degli scenari e la non-permissività dello spazio aereo

Il processo di strutturazione e composizione delle forze terrestri deve essere condotto in funzione dell’evoluzione degli scenari bellici in cui si ritiene che lo strumento militare dovrà operare. Analizzando la natura di quella che sarà la minaccia di domani, la pubblicazione edita dallo Stato Maggiore Esercito denominata Future Operating Environment Post 2035 (FOE), spiega come le Forze Terrestri dovranno essere in grado di operare in “un ambiente caratterizzato da una serie di minacce e di rischi diversificati per tipo, dimensione, capacità e direzione di provenienza” e che “le minacce che (esse) potranno incontrare saranno di forma e consistenza variabile nel tempo”. L’indeterminatezza è, dunque, la prima delle caratteristiche che il documento dello Stato Maggiore attribuisce alla minaccia. Nel definire i potenziali avversari, il documento definisce “improbabile” che l’Italia possa essere coinvolta in uno scontro con altri Stati. Le forze che dovremo affrontare saranno piuttosto “fazioni ostili a un governo legittimo che mirino alla destabilizzazione locale e si oppongono alla volontà della comunità internazionale in aree di crisi regionale” o “gruppi transnazionali più o meno strutturati di terroristi e/o criminali il cui livello di ambizione e le cui capacità sono cresciute nel tempo”. Ciò che appare più interessante nella definizione proposta dal documento non è tanto la natura dei soggetti individuati – nulla di nuovo, si direbbe, visti i teatri in cui l’Esercito Italiano è stato impiegato fino ad oggi – quanto il riferimento alle loro capacità, che si ritiene siano “cresciute”. Se nella parte in cui è descritta la minaccia tale aspetto è solo accennato, la questione diviene dettagliata nella parte relativa alle capacità operative fondamentali richieste alle forze terrestri del futuro, soprattutto nel capitolo dedicato alla protezione, dove viene specificato che “l’approvvigionamento di tecnologie emergenti da parte di attori indeterminati rende la protezione delle forze contro azioni cinetiche dirette e indirette di primaria importanza per il successo della campagna”. A costituire la vera novità della minaccia descritta dal FOE, quindi, non è tanto il nemico quanto l’incremento delle sue capacità, notevolmente incrementate a causa del proliferare di alcune tecnologie emergenti, oggi rese facilmente disponibili dal basso costo con cui sono acquistabili.

I principali teatri operativi in cui le forze terrestri occidentali si sono trovate ad operare negli ultimi vent’anni sono stati quello iracheno e quello afghano. Gli strumenti militari dell’Alleanza si sono strutturati e hanno sviluppato capacità in funzione della minaccia che hanno dovuto affrontare in quegli scenari. Una delle caratteristiche fondamentali di quei contesti è stata la permissività dello spazio aereo. Sia in Iraq che in Afghanistan, la Coalizione poteva contare sulla completa disponibilità della dimensione aerea. L’unico limite all’utilizzo della terza dimensione da parte dei vettori aerei di cui disponevano i contingenti occidentali schierati in quei luoghi era dato dalle caratteristiche tecniche degli assetti impiegati, quindi dalle limitazioni imposte dalle condizioni meteorologiche. 

È proprio la proliferazione delle tecnologie emergenti che rende non più valida questa caratteristica dell’ambiente operativo. La FOE, nel descrivere la minaccia rappresentata dai sistemi unmanned, spiega come “la proliferazione a bassissimo costo di sistemi senza equipaggio ha allargato la loro disponibilità a una vastissima gamma di attori. Il loro impiego (…) soprattutto da parte di attori non statali è infatti destinato ad aumentare, consentendo la condotta da parte avversaria di attività legate alla sorveglianza e gestione del campo di battaglia”. 

Il conflitto nel Caucaso

Quanto scritto dallo Stato Maggiore nel FOE sembra trovare conferma nei moderni conflitti bellici in corso o da poco conclusi. Se c’è una caratteristica che accomuna i recenti scontri nel Nagorno-Karabakh, in Libia, in Siria e in Ucraina, questa è certamente la massiccia presenza sul campo di battaglia di velivoli non pilotati, di natura e dimensioni alquanto variegate, il cui impiego varia dalla condotta di missioni di ricognizione e sorveglianza, al controllo del fuoco dell’artiglieria alla condotta di strike. 

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Il conflitto deflagrato nel Caucaso nell’autunno scorso tra Armenia e Azerbaigian per il controllo dell’Artsakh sembra offire un esempio chiaro di quanto detto fin qui. Se definire la guerra cui abbiamo assistito in quella regione una “guerra di droni” appare esagerato – in effetti, la guerra ha dimostrato che gli elementi tradizionali del conflitto tra forze armate convenzionali rimangono validi – è certamente vero che gli assetti non pilotati hanno giocato un ruolo decisivo nel definire le sorti del conflitto. Baku ha fatto un massiccio uso di questi apparecchi, di cui disponeva in quantità e qualità superiore a quelli di Erevan. Particolarmente decisivo è stato il ruolo giocato dalle munizioni circuitanti (loitering munition), acquistate da Israele, e dai droni turchi Bayraktar TB2. Concentriamoci in queste righe soprattutto sulle munizioni circuitanti, le cui dimensioni e peso risultano di gran lunga inferiori a quella di un drone MALE tipo quello prodotto dai turchi, ma la cui efficacia, se paragonata al costo, estremamente basso, risulta probabilmente superiore. 

Le munizioni circuitanti esistono in realtà da tempo, ma in Nagorno-Karabakh se n’è fatto un uso alquanto innovativo. I droni di Baku sono stati impiegati con una duplice funzione: quella di appoggio alle truppe e quella di strike. La prima si è sostanziata in una vasta gamma di attività, tra le quali spiccano le azioni di supporto al tiro dell’artiglieria, cui le munizioni circuitanti azere fornivano immagini e coordinate degli obiettivi da colpire, e la scoperta dei sistemi di difesa aerea nemici, che per difendersi dalle munizioni circuitanti erano obbligati a svelarsi. Quanto agli strike, le munizioni circuitanti hanno svolto missioni DEAD (Destruction of Enemy Air Defense), colpendo stazioni radar e batterie missilistiche – soprattutto sistemi SAM, spesso poco protetti –, ma anche missioni di strike sulla fronte dello schieramento nemico, colpendo sistemi di combattimento (carri, IFV ecc.), e, eccezionalmente, strike in profondità, colpendo, ad esempio, postazioni di missili Scud. 

Ciò che ha permesso a queste piccole macchine di svolgere con estrema efficacia le loro missioni è riconducibile a due fattori principali. In primo luogo, il terreno: il Nagorno-Karabakh è un territorio molto montagnoso, dunque si presta molto all’impiego di questo tipo di assetti, che possono sfruttare le montagne per avvicinarsi al nemico in maniera celata. In secondo luogo, le deficienze dei sistemi di difesa aerea armeni. Erevan disponeva di apparecchiature radar e sistemi missilistici anche relativamente avanzati, il problema era che le munizioni circuitanti risultavano spesso invisibili agli occhi di questi sistemi. Questo tipo di munizioni, infatti, è generalmente molto piccolo – il peso può scendere anche sotto i 10 kg –, molto silenzioso, in grado di risultare quindi pressoché invisibile ai radar e agli occhi del nemico. I sistemi di cui disponeva Erevan erano pensati per assicurare la protezione delle forze da aerei di grosse dimensioni, missili cruise e razzi di vario genere, non piccole macchine come le munizioni circuitanti. 

La difesa aerea contro i droni

I sistemi più efficaci per assicurare alle nostre forze la protezione da questo tipo di minaccia sono i cosiddetti sistemi C-RAM (Counter-Rocket, Artillery and Mortars), o anche C-DRAM, dove la D, evidentemente, indica Droni. I sistemi di difesa aerea di questo tipo sono realizzati per individuare e/o intercettare razzi, proietti d’artiglieria o bombe da mortaio diretti contro le nostre forze. 

Centurion C-RAM: The Solution that Isn't - A blog written by Dr. Stephen  Bryen

I complessi e sofisticati sistemi di difesa aerea a medio e lungo raggio in servizio presso le moderne Forze Armate occidentali, come il SAMP/T italo-francese o il Patriot americano, non solo hanno dimostrato di non essere in grado di fornire alle nostre forze un’efficace difesa contro questa minaccia – come chiaramente dimostrato nel settembre 2019, quando un attacco condotto dalle forze Houthi yemenite tramite questi sistemi contro delle installazioni petrolifere saudite difese dal sistema Patriot è riuscito a infliggere enormi danni senza essere intercettato e distrutto – ma, se anche fossero in grado di farlo, il loro costo sarebbe assolutamente proibitivo. Quanto detto vale anche per la maggior parte degli attuali sistemi SHORAD (Short Range Air Defense), come lo Stinger o il Mistral, entrambi realizzati per contrastare la minaccia rappresentata da aerei o elicotteri, quindi velivoli di grosse dimensioni. In effetti, i sistemi che sembrano risultare più efficaci per contrastare la minaccia rappresentata dai droni sono quelli comunemente noti con l’acronimo SPAAG (Self-Propelled Anti-Air Gun), sistemi d’arma antiaerei semoventi, quindi in grado di seguire le forze, generalmente armati con cannoncini e sistemi radar per la scoperta (un caso su tutti è il Gepard tedesco). Tornando a sistemi come Mistral e Stinger, se da una parte è vero che entrambi sono stati aggiornati per essere resi efficaci nella lotta anti-drone, ad esempio introducendo una spoletta di prossimità (nel caso dello Stinger), dall’altra questi sistemi risultano di poca utilità nel momento in cui si trovano ad affrontare un folto numero di UAV nemici, di dimensioni di qualsiasi genere. La FOE parla di questo fenomeno citando le “tecniche swarm”, capacità da contrastare in tutti i domini. In effetti, la prospettiva oggi è proprio quella dell’impiego in massa di apparecchi di questo tipo. 

Un sistema antiaereo che risulti efficace nel contrasto a questa minaccia dovrà necessariamente essere flessibile, ovvero in grado di fornire una risposta diversa a quella che è una minaccia sempre più diversificata. Dovrà, ad esempio, disporre di un cannone di piccolo/medio calibro (25-40 mm) in grado di erogare un elevato volume di fuoco contro gli sciami nemici, di radar per la scoperta e l’identificazione, di mitragliatrice leggera per la difesa vicina, di missili tipo Stinger per assetti di più alto prestigio, di capacità di guerra elettronica, per impedire il collegamento tra l’apparecchio e chi lo guida. 

Le forze armate occidentali non dispongono ad oggi di sistemi di questo tipo. Sono in corso progetti interessanti, come l’IM-SHORAD di Leonardo DRS e GDLS in via di acquisizione dall’US Army, il Centurion C-RAM, sempre per l’US Army; in Europa il Centauro 76/62 “Draco” di Leonardo (già OTO Melara), il Mantis di Rheinmetall, ma nessuno di questi oggi ha trovato compratori. Soprattutto, nessuno di essi include apparecchi di guerra elettronica in grado di rendere inoperabile il drone colpito. 

L’ambiente operativo non sarà più permissivo come prima, lo spazio aereo sarà contestato, la superiorità nella terza dimensione andrà conquistata. Nel frattempo, la minaccia proveniente dall’alto sarà sempre più densa e diversificata. Occorrono difese aree flessibili, integrate e capaci di far fronte a tutta la vasta gamma di minacce che insidieranno le nostre forze. 

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