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La Grande Diga tra Etiopia e Egitto, lo scenario in evoluzione sul Nilo

“L’Egitto è il Nilo, il Nilo è l’Egitto”.

Erodoto definisce un legame tra il più importante paese nordafricano e il più lungo fiume al mondo valido
ancora oggi, nella maggior complessità portata dai nilotici Burundi, Ruanda, Tanzania, Uganda, Etiopia,
Sudan e Sudan del Sud. Molti di essi sono tutto fuorché in grado di impensierire Il Cairo, anzi a esso
legati in varie tessiture diplomatiche. Diverso problema viene da Addis Abeba, l’Etiopia paese cardine del
Corno d’Africa, dotata di efficienti forze armate e in controllo del Nilo Azzurro, affluente del Nilo che
nasce dal lago Tana.
L’Egitto è una potenza cardine, all’incrocio di tre aree di crisi. A ovest coinvolto nel disfacimento delle Libie, con lo scopo di assicurarsi un’area cuscinetto in Cirenaica; a est le cicliche guerre israelo-palestinesi, con un ruolo da mediatore e il controllo del valico di Rafah; nel Mediterraneo e altrove le tensioni variamente acuite con la Turchia, sponsor islamista e competitor per le risorse energetiche (giacimento Zohr in acque egiziane, scoperto dall’ENI).
Fattori che fanno dell’Egitto un partner ambito: alleato assoluto degli USA di Trump, appena meno per
Biden, dopo la sbandata di Obama che aveva benedetto il governo islamico di Mohammed Morsi; molto
vicino alla Russia di Putin, che vi sta costruendo la centrale nucleare di al-Dabaa; snodo dei commerci
cinesi, sanciti da formale accordo. L’Italia, appesantita dai casi Regeni e Zaki, è tra i maggiori partner
europei ma, come suo solito, non trasforma l’introito economico in vantaggio politico.
Da ogni angolazione l’Egitto è dunque fondamentale. Da una direzione, tuttavia, ritornano le parole di
Erodoto: se, nel sud sub-sahariano, il corso del Nilo venisse interrotto, le conseguenze per la stabilità
regionale sarebbero devastanti.

“Stiamo studiando tutti gli scenari possibili”[1]. Le parole di Mohammed Abdel Aty, ministro egiziano per
l’irrigazione, sembrano spingere a uno scenario di scontro. Considerati traffico fluviale, agricoltura, pesca
e energia prodotta dalla diga di Assuan, l’Egitto dipende per il 90% dal suo fiume e ogni interruzione è
una minaccia esistenziale. Da quando nel 2011 la Salini Impreglio S.p.A. (dal 2020 Webuild S.p.A.) ha
posto la prima pietra della Grand Ethiopian Renaissance Dam il governo egiziano, quello sudanese con
minore apprensione, è stato in lotta contro il tempo.
Il premier etiope Abiy Ahmed, la cui stella peraltro si è molto offuscata nel Tigray, vede solo conseguenze positive nel progetto. L’Etiopia diventerà il serbatoio d’acqua e energia elettrica per il Corno d’Africa, lasciando prevedere incassi annui milionari. Potrà sostenere la crescita demografica interna (a oggi circa 100 milioni di persone, il doppio previsto per il 2060) e portare un benessere che disinneschi parte delle tensioni tra le nazioni federate. I necessari presupposti infrastrutturali oggi assenti (acquedotti, reti elettriche) saranno finanziati non solo dall’onnipresente interventismo economico cinese, ma anche dalle petro-monarchie del Golfo.
L’Egitto, da parte sua, vede solo conseguenze negative. La dipendenza dal Nilo è priva di credibili alternative, almeno nel breve periodo (non è un caso la scelta di optare sul nucleare, visto che l’idroelettrico è destinato a scendere). La piena operatività dell’impianto, ormai un dato di fatto, rischia di essere letale per l’economia egiziana e le popolazioni lontane dall’area costiera, ma già la seconda fase di riempimento, a luglio 2021, ha fatto sfiorare una crisi. Realizzata ignorando ogni coordinamento con i paesi interessati, non si è potuto attutire l’impatto a valle. In prospettiva, il governo egiziano teme la ricattabilità verso Addis Abeba e vede restringersi le possibilità di opzione militare, pena il rischio di un’inondazione.

Solo uno dei problemi per i generali egiziani[2]. Non condividendo i due paesi un confine, un attacco
ricadrebbe principalmente sull’aeronautica. Consci di questo, gli etiopi hanno circondato la diga con
sistemi antiaerei Spyder israeliani. La capacità egiziana di attacco al suolo è basata su aerei F-16, Mirage
e Sukhoi che, per numero e caratteristiche, potrebbero rivelarsi inadatti a raggiungere e demolire un
bersaglio di tali dimensioni, sopravvivendo alla reazione etiope. I danni arrecati difficilmente sarebbero
tali da ripagare delle disastrose ripercussioni politiche di un’aggressione.
Le opzioni dal mare non sono migliori[3]. La violazione del territorio eritreo sarebbe inevitabile, essendo
l’Etiopia senza accesso diretto, e la marina egiziana non ha esperienza di attacchi su obiettivi terrestri, pur
disponendo delle capacità teoricamente necessarie. Anche in questo caso, le probabilità di non arrecare
danni significativi sarebbero alte. Quale che fosse l’opzione privilegiata, aerea o navale, le più importanti
installazioni militari egiziane sono nel nord del paese a ridosso della capitale, nel Sinai, nei pressi dei confini con Israele e Libia. La capacità di proiezione su tali distanze verrebbe portata al limite,
probabilmente oltre.
Le possibilità di una guerra sono comunque tutt’altro che irrilevanti. Prova ne siano le frequenti esercitazioni congiunte tra Egitto e Sudan in tale prospettiva. Khartoum, rivale dell’Egitto sotto Omar al-Bashir, dopo il rovesciamento del regime islamico si è allineato al Cairo e ha riconosciuto Israele nel quadro degli accordi di Abramo, conducendo tre esercitazioni tra 2020 e 2021 (Aquile del Nilo 1 e 2 e Guardiani del Nilo) simulando fin dal nome scopo e avversario dei due paesi arabi. Il Sudan non può definirsi una potenza militare, ma un’azione coordinata metterebbe in crisi l’Etiopia, già impegnata in Somalia e contro la secessione tigrina che ne ha evidenziato debolezze e divisioni interne.
“Tutte le opzioni sono sul tavolo”[4]. Il ministro dell’irrigazione sudanese ha usato le stesse parole del
collega egiziano per descrivere la situazione, ma il ruolo di Khartoum è variegato e potenzialmente
decisivo nel decidere tra guerra o pace. Beneficiario dell’acqua del Nilo Bianco, il Sudan deve però
considerare anche la contesa di confine nella zona di al-Fashaga e l’arrivo dei profughi dalla guerra civile
tigrina. Travagliato dalle lotte tra componenti etnico-religiose, dal distacco del Sudan del Sud, dal
rovesciamento del regime di al-Bashir e dalle lotte per il potere (l’ultimo colpo di Stato risale a ottobre
2021), è improbabile che il Sudan voglia favorire una guerra regionale. La decisione sarà determinante in
un senso o nell’altro, difficilmente l’Egitto potrà colpire senza l’aiuto sudanese o almeno la concessione
di basi vicine alla diga.

Se la soluzione militare è complicata, lo è anche la via diplomatica. L’apertura di Egitto e Sudan al
dialogo è l’ultimo passo di un decennio di accuse e incomprensioni, terminato nell’avvio unilaterale della
produzione energetica in violazione, dicono gli egiziani, degli accordi presi nel 2015.
L’Etiopia dà poca importanza ai negoziati con il rivale, né accetta di affidare una soluzione a Stati Uniti,
Consiglio di Sicurezza o Unione Europea, con la quale ci sono stati screzi sulla supervisione delle ultime
elezioni. La posizione di Addis Abeba, sintetizzata al ministero degli Esteri nella formula “è acqua
africana”, sottinteso non araba, è di procedere con il riempimento senza imbrigliarsi in trattative, al più
coinvolgendo l’Unione Africana di cui ospita le sedi istituzionali. Il presidente di turno, il congolese Felix
Tshisekedi, ha incoraggiato contatti sostenuti dalle Nazioni Unite, ma il governo etiope nega la
competenza dell’ONU sull’argomento.
Gli obiettivi diplomatici egiziani sono precisamente quanto gli etiopi vogliono evitare:
internazionalizzazione della questione e aumento dell’influenza regionale[5]. L’allineamento con il Sudan,
incoraggiato dallo strappo sul secondo riempimento senza consenso, si riflette in una partnership
economica con progetti infrastrutturali a Khartoum e nel resto del paese. Un modello di influenza che il
presidente al-Sisi mira a replicare in altri paesi. Da qui gli accordi con il Kenya, le visite di Stato in Sudan
del Sud e a Gibuti, in generale la rinnovata importanza di un Africa sub-sahariana a lungo dimenticata a
vantaggio di Medio Oriente e Mediterraneo. Al tentativo di racchiudere l’Etiopia in una rete diplomatica
si sommano le posizioni internazionali verso Stati Uniti, Russia e Cina. Anche i tentativi di riavvicinarsi
alla Turchia, evitando uno scontro che in qualche occasione è sembrato imminente, vanno in questa
direzione. Se una guerra con l’Etiopia porterebbe le risorse egiziane al limite, una contro Etiopia e
Turchia sarebbe impensabile. Aspetto che non sfugge al presidente Erdogan, che per la prima volta ha
appoggiato una potenza prevalentemente cristiana contro una musulmana.
Le rispettive diplomazie sembrano impegnate a sostenere i propri interessi, completare o impedire
l’attivazione della diga, piuttosto che trovare un compromesso. Ogni contatto diretto è stato finora incerto
e viziato dalla malafede, reale o percepita, di una o entrambe le parti. Da tali premesse è facile capire
perché la cogestione appaia impossibile, mentre si accendono sentimenti nazionalisti e la tentazione della
soluzione di forza, pur con le difficoltà indicate, prende piede.
La diplomazia è ulteriormente intralciata dall’attuale conflitto russo-ucraino in Europa. La potenziale crisi
sul Nilo è passata immediatamente e inevitabilmente in secondo piano, appena quattro giorni dopo l’avvio
della prima turbina[6]. Con Stati Uniti, Europa e Nazioni Unite, Russia e Cina altrove concentrate, i due
contendenti sono lasciati soli a gestire una situazione bloccata, con l’Egitto sempre più in un angolo.

Come si pone l’Italia davanti una potenziale crisi militare?
In occasione della visita del ministro degli Esteri etiope alla Farnesina, a luglio scorso, si è affrontato
l’argomento Tigray nel solco della tradizionale via italiana alla diplomazia: preoccupazione e auspici di
dialogo inclusivo tra le parti, pieno appoggio a ogni iniziativa portata avanti da altri, siano le Nazioni
Unite o l’Unione Europea. Su un piano più concreto, il governo italiano ha inviato aiuti umanitari nell’area ma, di fatto, manca qualunque leva di pressione per far valere un proprio punto di vista.
L’influenza politica nell’area, importante fino agli anni Ottanta e Novanta, è quasi scomparsa come
dimostra l’imbarazzante gestione mediatica del sequestro Silvia Romano in Somalia, con la Turchia
intenta a attribuirsi il merito della sua conclusione laddove un tempo la classe dirigente era formata nelle
università italiane.
La contrarietà ministeriale alla costruzione della diga, di cui si paventavano conseguenze negative
puntualmente avverate, non ha influito sui legittimi interessi privati di un’impresa italiana. La capacità di
Roma di incidere sulle decisioni egiziane non è certo più profonda, come dimostrano l’omicidio Regeni e
l’arresto Zaki. Contese legali nelle quali le autorità egiziane si fanno beffa di ogni richiesta nostrana. In
campo economico i legami sono molto più validi, si veda l’attività estrattiva dell’Eni e le forniture militari
di Leonardo-Finmeccanica (avvenute decurtando la Marina italiana di navi già consegnate).

Costruzione della Grande Diga Etiope, estrazioni nel giacimento Zohr, fregate Fremm e elicotteri AW-
149 venduti all’Egitto da un lato; incapacità di impedire la costruzione italiana di una diga che il governo italiano non voleva, perlomeno nei termini in cui è stata costruita, incapacità di processare gli assassini di
Giulio Regeni e tanto meno di cooperare con l’Egitto in Libia, dove si appoggiano alla propria maniera le
due parti avverse. Queste le conseguenze di un approccio economicista alla politica estera, dove le
imprese italiane trionfano senza ricadute positive per il governo, che vede anzi ridursi ogni margine di
manovra.
Eppure l’Italia, condannata da una geografia che in altri tempi l’aveva favorita, è in prima linea per ogni
contraccolpo di un’eventuale guerra tra mar Mediterraneo e mar Rosso. Il primo che viene in mente, e
tanto coinvolge l’opinione pubblica dopo che si è verificato ma mai prima, è un flusso di profughi ben
peggiore di quanto visto fino adesso.

[1] Bonini C., Del Re P., Pertici L., “La guerra dell’acqua”, Repubblica.it, 25 luglio 2021
[2] C.W. Dunne, “The Grand Ethiopian Renaissance Dam and Egypt’s Military Options”, Arab Center Washington DC
[3] Marshall T., Il potere delle mappe. Le 10 aree cruciali per il futuro del nostro pianeta, Garzanti, 2021
[4] Bonini C., Del Re P., Pertici L., “La guerra dell’acqua”, Repubblica.it, 25 luglio 2021
[5] Soliman M., “Egypt’s Nile Strategy”, Middle East Institute
[6]“Diga GERD: l’Egitto accusa l’Etiopia, violato l’accordo del 2015”, sicurezzainternazionale.luiss.it

Immagine di copertina: qui

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