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La regione MENA epicentro di problemi e prospettive

Pacem in terris, quam homines universi cupidissime quovis tempore appetiverunt…[1].

Secondo Giovanni Guareschi il latino è lingua con la quale non si può giocare: è essenziale, non si presta a fraintendimenti. Papa Giovanni XXIII, con la sua Enciclica del 1963, ha inteso dare una cornice a ciò che deve essere inteso come pace in tutte le sue accezioni, pur tenendo comunque a mente quel che gli stessi Padri della Chiesa, in una sorta di nemesi, hanno affermato a proposito di guerra giusta.

Quello dei conflitti finisce per essere tema ambivalente e complesso, che si conforma alla teologia mediterranea dove risuona con insistenza jihad, un termine che unisce in un ossimoro da ghiaccio bollente la guerra alla santità.

Dahrendorf Forum

Da Gibilterra allo Yemen, dalla Siria all’Iraq, dal Golfo Persico, o Arabico a seconda della sponda, fino al teocratico Iran, la regione MENA si conferma epicentro geopolitico conflittuale. 

Guerre civili, erosione delle strutture statuali e diffusione di gruppi terroristici, lotta per l’egemonia, competizione globale tra potenze in ascesa, o in cerca di conferme, o costrette a perpetuare il loro controllo a difesa di avare rendite di posizione, trovano in Medio Oriente una delle più calde arene planetarie.

L’estensione dei conflitti extra limites, non limitati ad un Paese e non ovviabili internamente, condiziona la politica: attori locali e regionali, stranieri ed organizzazioni internazionali sono divenuti i protagonisti delle sorti dell’area. 

La gestione dei conflitti varia in funzione degli interessi: in alcuni casi si indirizza all’ottenimento di stabilità prolungate; in altri non può che essere di breve respiro e, comunque, puntata ad ottenere benefici pratici, a carattere economico militare[2].

La presenza ingombrante di Mosca ed il sottile filo di equilibrio tra MENA ed Occidente

L’interventismo russo, dal MENA (Middle East and North Africa) al Sahel, ha permesso l’attuazione di una strategia che ha agevolato gli approcci di hard power rispetto a quelli diplomatici, funzionali alla riaffermazione globale del Cremlino. 

Gli interventi russi rappresentano di fatto un modello compiuto di peace enforcement, spesso privatizzato, che caratterizza un quadro in cui il marchio moscovita identifica le tessere di un mosaico, via via sempre più esteso, che privilegia la stabilità autoritaria e non il cambiamento pluralistico. 

In Siria come in Yemen, la sopravvivenza statuale è elemento insostituibile per l’imposizione della pace, ed il posizionamento russo riflette le ambizioni geopolitiche di Mosca volte a contrastare gli interessi occidentali come avviene in Libia. 

Gli stessi colloqui di Astana, pur apparentemente inclusivi, hanno subito un effetto deformante dovuto alla supervisione del Cremlino, parte in causa nel conflitto siriano. 

Va comunque rammentato che prima del conflitto ucraino il successo diplomatico russo è consistito nello sviluppare buoni rapporti con i governi filo-occidentali che hanno inquadrato la cooperazione con Mosca sia come valida motivazione per un Ovest dall’interesse mediorientale declinante, sia per dare una spinta al Cremlino perché tenesse conto dei loro interessi prima di appoggiare Teheran, sia, infine, per l’utile predisposizione autocratica a non inerire in merito a democrazia e diritti umani.

Realisticamente i regimi filo occidentali hanno mantenuto il loro equilibrio politico, sostenendo le risoluzioni ONU non vincolanti contro Mosca, o astenendosi, o addirittura non votando. 

Anche Israele ha preferito evitare attriti con la Russia senza così di rischiare di infrangere l’entente, grazie a cui Mosca si è astenuta dall’intervenire sugli attacchi di Gerusalemme contro le posizioni iraniane e di Hezbollah in Siria.

Importante la politica turca che, pur con i suoi attriti con l’Occidente, è riuscita a ritagliarsi un ruolo rilevante nel mediare la ripresa delle esportazioni di cereali bloccati in porto dalla Marina Russa e, discutibilmente, sia per non aver partecipato alle sanzioni occidentali inflitte a Mosca, sia per aver osteggiato l’adesione finnica-svedese alla NATO.

Una delle collateralità dell’invasione russa ha comunque comportato un parziale ritiro dell’Armata Russa dalla Siria, con il contestuale conferimento di maggiori responsabilità regionali a Teheran, cosa che determina l’impossibilità di conservare un equilibrio tra Israele[3], Iran, Hezbollah da un lato, e tra Turchia, Siria, ed i curdo siriani dall’altro, con una conseguente ripresa del conflitto damasceno[4]

La dipendenza russa dagli equipaggiamenti iraniani può voler dire che la Russia non è più disposta a mantenere l’equilibrio tra Teheran ed i suoi avversari mediorientali. Finché l’operazione militare speciale continua, Mosca non potrà aumentare la sua presenza militare in MO, determinando così uno sbilanciamento di fatto incontrollabile.  

La nuova alleanza tra Israele e Stati Arabi e la sfida iraniana

Rimanendo in ambito militare, l’alleanza tra Israele e gli Stati Arabi indotta dagli Accordi di Abramo si fonda su tre pilastri: il primo prevede lo sviluppo di un’azione militare volta a spezzare il programma nucleare iraniano[5], il secondo contempla gli sforzi per minare i programmi missilistici, il  terzo si basa su un’inedita alleanza militare basata su un sistema di difesa aerea collettivo in grado di sfruttare i sensori del Golfo, il che darebbe a Israele più tempo per rispondere ad un attacco cementando una credibile posizione di deterrenza.

Da non dimenticare la politica del doppio forno che, non allontanando definitivamente gli USA, contempla però il contenimento diplomatico iraniano: un’alleanza militare anti Teheran non agevolerebbe gli interessi arabi[6].

Che l’area sia magmatica malgrado gli autoritarismi, è fuori di dubbio; gli ultimi tumulti in ordine di tempo sono quelli che ancora scuotono la Repubblica islamica, governata da una casta clericale portata al potere da una rivolta, e tuttavia sempre più distante dalle istanze di una società che, nella sua evoluzione, rimanda a Primavere che sembrano aver prodotto molto poco, poiché simbolo di politiche troppo progressiste per terre ancora avvinte ad una trama storica impossibile da disfare così facilmente, o ad ideologie dissoltesi alla prova dei fatti.

Iran, Kurdistan frammentato, lontano dall’indipendenza ed oggetto di attacchi turchi ed iraniani; Siria, Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan, Iraq, Giordania alle prese con pericolose faide interne alla casa regnante; Libano, ancora privo di Capo dello Stato[7], sono le punte di un iceberg ancora emergente in un contesto privo di cambiamenti sostanziali.

Il fallimento della Primavera Araba e la trasformazione della Fratellanza Mussulmana

I movimenti che hanno animato il MENA hanno prodotto esiti limitati, non riuscendo ad agevolare l’instaurazione di regimi più democratici. Quella che è mancata a partire dal 2010 è stata una vera leadership politica ed organizzativa cui fare riferimento, posto che, in Paesi come la Tunisia, dove nel 2021 il Parlamento è stato sciolto e si è poi votato per una nuova Costituzione, l’attuale deriva politica risulta essere estremamente complessa, apparentemente votata alla preservazione di un autoritarismo che pure lotta contro i partiti di ispirazione religiosa come Ennahda.

Si tratta in sintesi di un modus operandi che alimenta l’illusione di una diretta provenienza popolare, qualcosa che ideologicamente richiama la Jamahiryya di Gheddafi, ma che ancora manca di un fattivo collegamento con il potere.

La politica rallentata, inefficiente, ha dato al tunisino Saied[8] la motivazione “a la Schmitt” di giungere ad un pericoloso stato d’eccezione, che il pur fallimentare esito delle ultime elezioni, in termini di partecipazione popolare, non ha ancora intaccato.

Il punto è sempre quello, guardare il dito o la luna, le aspirazioni politiche o gli effettivi risultati. È il collante ideologico autoctono ad essere venuto meno per primo, quello della Fratellanza Musulmana, che proprio nel momento dell’ascesa al potere in Egitto ha cominciato a covare il virus dell’autodistruzione. I fallimenti politici nella gestione dei rapporti esogeni con le istituzioni preesistenti, laiche e religiose, hanno spalancato le porte all’intervento militare.

Al di là della caratterizzazione delle controversie interne, che hanno lasciato la Fratellanza in balia di sé stessa, tutto si è ridotto ad una questione di controllo di strutture e risorse finanziarie, lasciando campo libero alle idee radicali salafite. Di fatto, mancano progettualità e stella polare su cui indirizzarsi. I Fratelli Musulmani si stanno trasformando in un’organizzazione senza movimento privo di slancio ideologico, ma ricco di appoggi finanziari.

E la finanza chiama inevitabilmente a sé l’economia, con tutte le sue sfaccettature. Pandemia e guerra ucraina stanno mettendo alla prova l’economia della regione, anche in termini di calo dei flussi di integrated development environment, vista anche la dipendenza sostanziale dai capitali stranieri[9], senza contare i necessari investimenti in asset infrastrutturali:la Banca mondiale ha stimato un fabbisogno di almeno 100 miliardi di dollari per anno nei prossimi 5 anni per ottimizzare la connettività dei progetti di trasporto ed energia. 

L’impatto della guerra in Ucraina sui delicati equilibri del MENA

La guerra in Ucraina ha inciso sui paesi MENA in diversi modi, principalmente attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia, cosa che ha imposto una particolare attenzione sulle ripercussioni economiche riverberatesi sulle società.

È evidente che oscillazioni ed instabilità, per diversi produttori petroliferi[10], hanno determinato vantaggi tali da rimandare l’esame degli squilibri interni dovuti all’aumento inflattivo; l’effetto negativo delle inattese entrate finanziarie ha rinviato il confronto sulla validità attuale del sistema delle rendite.

Le previsioni di crescita complessiva dovrebbero dunque rallentare indebolendo gran parte del MENA; i forti esportatori di idrocarburi, come i Paesi del Golfo, caratterizzati da scarsa demografia, avranno la possibilità di sostenere l’ingente spesa pubblica affidandosi alle riserve finanziarie alimentate da un’esportazione stabile e soprattutto dall’aumento dei prezzi. Il sistema consentirà di evitare, almeno per il momento, proteste determinate dalla penuria di cereali e grano ucraini[11].

Non è un mistero che la crisi abbia colpito la regione in un momento in cui il sistema alimentare ha subito un cambiamento che l’ha condotto verso globalizzazione e corporativizzazione delle catene del valore, come non è un mistero che i prezzi dei prodotti alimentari hanno toccato livelli così elevati tali, nel 2011, da innescare le Primavere: la stabilità interna e soprattutto regionale, anche da questo punto di vista, è ancora in gioco. Le interruzioni delle catene di approvvigionamento a seguito della pandemia hanno acuito le preoccupazioni sull’attendibilità del regime multilaterale alimentare post II GM, soprattutto se posto in correlazione con l’incipiente crisi idrica.

La diplomazia alimentare dei Paesi del Golfo quale terza via politica

Data la carenza d’acqua, l’autosufficienza alimentare non può essere considerata un’opzione, dunque le importazioni alimentari dovranno addirittura aumentare se si considera la crescita demografica. 

Al momento l’unica soluzione immediatamente praticabile, come accaduto nel 2007/2008, consiste o nell’aumentare gli stoccaggi o puntare alle catene di approvvigionamento globali, ma si tratta di un investimento non accessibile a tutti. I Paesi del Golfo, avendone le disponibilità, hanno di fatto inaugurato una sorta di diplomazia alimentare con una gestione delle catene del valore poste al centro della strategia di sicurezza alimentare. Golfo neutrale = Golfo centrale e globale? Le monarchie del Golfo hanno risposto si, evitando così di schierarsi fra Washington, Pechino[12], Mosca e Bruxelles[13].

Nel 2023, le sfide per il Golfo verteranno sull’Iran e sui rapporti con le istituzioni europee. Sarà sempre più difficile separare i negoziati JCPOA dalla condanna della repressione attuata da Teheran, nonché dalla questione dei missili e dei droni iraniani. In Europa il Qatargate rallenterà i rapporti tra monarchie e Bruxelles, meno quelli con i singoli Paesi europei[14]; comunque gli stati del Golfo avranno bisogno di sistemi economici aperti e interdipendenti per massimizzare le entrate interne, in modo da diversificare l’economia nel momento storico post-idrocarburi.

In ogni caso, anche se i player più ricchi riuscissero ad isolarsi dall’impatto della guerra ucraina, dovrebbero fare i conti con un’instabilità politica innescata dall’insicurezza alimentare. In questo ambito gli EAU stanno consolidando il loro status di hub alimentare globale; non a caso la sicurezza alimentare ha costituito un aspetto rilevante degli accordi di partenariato economico globale stretti con India e Israele, come non a caso i vincoli stretti con l’Ucraina costituiscono un altro pilastro strategico per assicurare la catena di approvvigionamento alimentare internazionale.

L’acqua dunque impatta con le esigenze degli Stati e, da problema locale qual è, valica immediatamente i confini. L’acqua, uno dei componenti base degli Accordi di Abramo, ha agevolato i processi di normalizzazione diplomatica tra Israele, EAU e Bahrain e si è trasformata in catalizzatrice di azioni cooperative. L’acqua è uno dei pilastri del rapporto diplomatico tra Israele, detentore di tecnologia di alto livello, e Giordania, rentier state di posizione, e testimonia del fatto che quasi tutti gli attori regionali, pur in contrasto tra loro, non esitano a cooperare sull’idrologia. Nel frattempo, dighe turche e iraniane stanno contribuendo a rendere instabili settori iraqeni e siriani, contribuendo alla parcellizzazione territoriale, una tendenza che la situazione regionale non può tollerare.

Reggerà l’accordo energetico tra Israele e Libano?

Israele riverbera la sua volitività anche in capo energetico: dopo due anni di negoziati mediati dagli USA, Gerusalemme (con il governo Lapid) e Beirut hanno perfezionato l’accordo di demarcazione dei confini marittimi, in modo da regolare lo sfruttamento dei giacimenti di Karish e Qana; un accordo che, tuttavia, dovrà passare all’ulteriore vaglio del nuovo governo Netanyahu.

L’impatto politico dell’accordo è comunque limitato, visto che non si tratta di un negoziato bilaterale tra Libano e Israele, ma di due accordi bilaterali firmati separatamente con il mediatore statunitense Amos Hochstein. L’appoggio fornito da Hezbollah[15] conferma la natura tecnica dell’accordo[16].

Prospettive di crescita economica della regione e problemi con i Paesi produttori di petrolio

Economicamente, la crescita non si distribuirà uniformemente, dato che le economie importatrici di combustibili fossili, colpite da shock economico da guerra, rimangono al palo rispetto a quelle esportatrici. 

In sintesi, le prospettive di crescita dipenderanno dall’evoluzione delle questioni globali, tra cui le oscillazioni del prezzo del petrolio e le incombenti inflazione, deprezzamento valutario, aumento dei tassi di interesse e recessione.

In questo contesto, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio[17] si è posta in connessione diretta con politica ed economia, stabilendo i barili di prodotto da estrarre in quantità tali da indirizzare i prezzi di un mercato che, mai come quest’anno, è risultato particolarmente oscillante.

Politicamente, il recente viaggio del Presidente Biden non ha dunque ottenuto i risultati auspicati, non riuscendo a convincere l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione calmierando i mercati, aggravando una situazione complicata dall’entrata in scena del price cap europeo.

Non è inutile affiancare questo parziale insuccesso americano agli esiti delle già richiamate Primavere: sembra quanto mai evidente la necessità, per la politica americana in MO, di procedere a correzioni di rotta, prescindendo da posizioni neodem di difficile applicabilità in un contesto politico così distante da quello della cultura WASP a meno che, prima della prossima riunione OPEC di febbraio, qualcosa non cambi.

MENA sempre più esportatore di gas verso l’Occidente

Oltre all’export di gas naturale, il potenziale dell’idrogeno verde quale fonte rinnovabile potrebbe portare in primo piano diversi Paesi come destinatari di IDE. La connettività infrastrutturale rimane esigua ma, laddove l’integrazione euro mediterranea verrà implementata, si può auspicare un impatto a lungo termine, con un network di piattaforme logistiche inserite in un contesto cooperativo interessante porti e zone economiche speciali.

Attenzione però alle vulnerabilità del sistema privato, che ha bisogno di stabilità politica in sinergia con il sostegno istituzionale. La politica dovrà dunque indirizzarsi verso ambiti economici sostenibili, proteggendo i settori sociali più vulnerabili, grazie a valutazioni realistiche delle contingenze e delle possibilità, al momento di fatto assenti, date come esempio le crisi finanziarie libanese e iraniana[18].

Nel Mediterraneo orientale gli investimenti europei nell’upstream dovrebbero permettere maggiori esportazioni di gas naturale; a sud il partenariato euro-egiziano per l’idrogeno rinnovabile[19] può iniziare a delineare una comparazione più vantaggiosa con le attività estrattive, senza contare che il Mediterraneo meridionale potrebbe trasformarsi in destinazione appetibile per le aziende volte sia a trasferire la produzione dall’Asia dell’est all’Europa dell’ovest, sia ad investire nel near-shoring all’interno del bacino mediterraneo[20]

È evidente come i fornitori MENA acquistino sempre più importanza: Algeria e Qatar fornendo insieme il 17% circa delle importazioni di gas naturale dell’UE, hanno acquisito un peso politico non indifferente, alla luce del quale anche la gestione dello scandalo deflagrato a Bruxelles deve essere posta sotto ottiche diverse dal consueto, preservando le istituzioni e facendo pagare ogni fio ai singoli personaggi coinvolti. L’intento di Bruxelles di ridimensionare il MO a favore dell’Indo-Pacifico è al momento tramontato, aspetto questo particolarmente gradito a Riyadh, in cerca di supporto internazionale in tema securitario e commerciale volto alla diversificazione economica. 

Problemi presenti e futuri

Non poteva mancare il soft power affidato al calcio, tanto più significativo quanto più correlato al Paese ospitante i mondiali ed alla querelle bruxellese sul ritrovamento di sacchi colmi di danaro, che si ricollega dopo poco più di un anno alla soluzione della crisi che a suo tempo ha visto Arabia Saudita e EAU rompere i rapporti diplomatici con il Qatar. Del resto la Coppa FIFA si incastona tra altri eventi di rilievo: le proteste iraniane, lo stallo del JCPOA[21], le elezioni israeliane, il ritorno di Netanyahu con un governo marcatamente di destra, l’attrito saudita statunitense, l’accordo tra Germania e Qatar per la fornitura annuale di 2,8 miliardi di m3 di gas naturale liquefatto (GNL) con il contorno della plateale contestazione della squadra di calcio tedesca.

Esiste una diplomazia mediorientale? Si, ma che sia efficace è tutto da valutare. I dossier sono diversi, e annoverano l’incertezza della questione palestinese, le crisi in corso in Libia, Libano e Yemen, la riabilitazione della Siria ancora avvinta all’abbraccio con Iran e Hezbollah, la frattura tra la politicamente ascendente Algeria ed il Marocco; tutte questioni accentuate da trasversalità aggravate dalla guerra ucraina. La frammentazione che stigmatizza la Lega Araba, troppo spesso priva della presenza degli Stati più ricchi ed influenti, evidenzia più di un’incertezza circa la possibilità di addivenire a risultati effettivi.

L’Occidente deve ormai prendere atto di un cambiamento di dinamiche scevre da condizionamenti americani ma sempre più influenzate dalla mezzaluna sciita di Teheran. Anche il secondo incontro della recente conferenza di Baghdad, che ha riunito responsabili regionali, rappresentanti di Francia, UE e ONU, non ha fornito miracoli ma risultati contrastanti, prima fra tutti l’intenzione iraniana di rimanere avvinta all’Iraq, senza nemmeno tentare un approccio con Riyadh. Mentre gli USA guardano al MO distratti dall’Indo Pacifico, nel frattempo la Francia rilancia il desiderio di esercitare la sua influenza.

Conclusioni

Mai come ora la multipolarizzazione rende instabile una regione che, mentre sembra adottare paradigmi democratizzanti, cede agli autoritarismi od alle politiche animate da egemoni che vedono nelle risorse giacenti la chiave di volta per le loro proiezioni di potenza. Partiamo dal presupposto che interessi e politica predominino.

La Turchia si prepara alle elezioni ma arresta il sindaco di Istanbul, pericoloso concorrente per il Reis Erdogan mai così lontano dall’ideale kemalista; l’Algeria, hub energetico mediterraneo, coltiva profondi legami con la Cina che intende agevolarne l’ingresso tra i BRICS; la Tunisia si dibatte in una sorta di stato d’eccezione che sembra riportarla a periodi antecedenti alle Primavere arabe; la Libia vive la contesa tra due pseudo compagini governative che non evitano nuovi e più violenti attriti lasciando il Paese in balia di interessati soggetti politici stranieri; l’Arabia Saudita, mentre cerca di espandere la sua politica estera deve prendere atto dell’insostituibilità americana per gli aspetti securitari, malgrado la maldestra politica di Washington; crisi economiche ed alimentari tendono ad assumere il carattere della incontrollabilità; il radicalismo salafita continua a proporsi mentre la repressiva statualità sciita iraniana attira su di sé  l’incostante riprovazione planetaria.

La politica americana, a partire dalla Amministrazione Obama ritenendo di dover dedicare le proprie attenzioni più esclusive all’area dell’indopacifico, ha accentuato le asperità di una politica neodem incompatibile con le istanze di un MO naturalmente in fermento.

Mai come ora, la Pace in terris auspicata da Giovanni XXIII appare lontana ed in pericolo.   


[1] La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio

[2] La campagna NATO in Libia non aveva nessuna prospettiva stabilizzatrice a lungo termine, desiderando evitare un’operazione militare finalizzata ad una transizione postbellica. Le autorità libiche hanno affrontato il compito di contrastare i gruppi armati senza un governo centralizzato.

[3] La Marina Militare israeliana, con il Ministero della Difesa e l’azienda produttrice Rafael Advanced Defense Systems, ha annunciato il successo dei test di intercettazione da parte del sistema C-Dome imbarcato sulla INS Oz, seconda corvetta della classe Sa’ar 6. Il sistema C-Dome permetterà alle nuove unità (ne sono previste sei) di pattugliare la ZEE di Israele, proteggendo in particolare le piattaforme per l’estrazione del gas. Il sistema C-Dome completerà la copertura aerea integrandosi nell’architettura antiaerea e antimissile.

[4] Non a caso per contenere la minaccia di Teheran Israele sta stimolando una più ampia cooperazione militare con gli stati arabi del Golfo, ipotizzando una NATO mediorientale. Le posizioni di Arabia Saudita ed EAU sulla proposta israeliana riflettono un orientamento politico basato sul timore del disimpegno americano rispetto all’ascesa cinese, vd. reazione americana all’attacco alle strutture petrolifere Saudi Aramco e timori suscitati dall’attacco che ha ucciso il capo della Forza Quds, generale Qassem Soleimani. Gli EAU si sono poi risentiti per come l’amministrazione Biden ha poco considerato gli attacchi dei droni huthi contro Abu Dhabi nel gennaio 2022. Da notare come gli EAU nell’agosto 2022 abbiano nominato il proprio ambasciatore a Teheran.

[5] Gli USA hanno chiarito che ricorreranno alla forza solo come extrema ratio

[6] In caso di ulteriore resistenza araba del Golfo ad un’alleanza anti-iraniana, l’unica sede alternativa per Israele rimane il comando centrale USA, che permetterebbe a Israele di partecipare a riunioni ed esercitazioni regionali senza esporre i governi del Golfo Arabo.

[7] Il regno Saudita intende evitare un altro presidente come Michel Aoun, ritenuto responsabile di aver consentito la presenza pervasiva di Hezbollah insieme con quella dell’Iran. 

[8] Particolare tensione si è manifestata a Tunisi in agosto in occasione della Tokyo International Conference on African Development (TICAD), la conferenza internazionale sullo sviluppo africano avviata dal Giappone nel 1993 che riunisce i responsabili del continente africano, del Giappone, nonché i vertici di NU e Banca Mondiale, per la decisione del Presidente Saied di riservare gli onori attribuibili ad un Capo di Stato a Brahim Ghali, Presidente dell’autoproclamata Repubblica Democratica Araba Saharawi (SADR). Mentre Tunisi giustificato la scelta di invitare Ghali secondo quanto già avvenuto nelle edizioni TICAD a Nairobi (2016) e a Yokohama (2019), Rabat ha annullato la sua partecipazione all’evento e ha richiamato l’Ambasciatore in Tunisia. In questo contesto Algeri potrebbe internazionalizzare la questione riguardante il riconoscimento del Polisario, trovando conforto in Unione Africana e Lega Araba, che però in merito hanno mostrato scarso interesse.

[9] In Marocco lo stock degli investimenti diretti esteri è pari al 55% del PIL; in Tunisia è del 71% e in Bahrain è all’86%

[10] P. es. Consiglio di cooperazione del Golfo, Algeria

[11] Il 30% delle esportazioni globali di grano e orzo, il 20% del mais e 3/4 dell’olio di girasole provengono dai Russia e Ucraina. Nel MENA la dipendenza per le importazioni di grano arriva al 50%. Particolarmente vulnerabili Egitto, Libano e Sudan.La produzione ne risente ovunque perché sia Russia che Ucraina sono i principali esportatori di fertilizzanti a base di azoto, fosfati e potassio. 

[12]Tra il 2016 e il 2020, l’Arabia Saudita ha aumentato le importazioni di armi dalla Cina rispetto al periodo tra il 2011 e il 2015. Gli EAUniti hanno acquistato per la prima volta aerei da combattimento leggeri cinesi L-15, preceduti da aerei d’attacco senza pilota Wing Loong II così come fatto dall’Arabia Saudita. 

[13] Con Pechino, i Sauditi hanno siglato circa 40 accordi per energia fossile e verde, industria petrolchimica, tecnologia, trasporti, costruzioni e logistica. La visita di Xi, come per Biden, è stata accompagnata da due vertici preparatori, benché Riyadh sappiache gli USA continuano a essere gli unici garanti esterni securitari. La Cina è anche coinvolta nel progetto della costruzione della futuristica città di Neom, fiore all’occhiello della politica di MbS

[14] La sicurezza marittima tra vie commerciali (Mar Rosso, Aden, Mar Arabico) e choke-points (Hormuz e Bab el-Mandeb) racchiude opportunità e rischi. Gli USA hanno confermato un nuovo incontro del Forum Negev (Israele, EAU, Bahrein, Egitto e Marocco) previsto per il primo quadrimestre 2023. Intanto la Difesa Saudita ha siglato un MoU con Navantia per l’allestimento di navi multi-missione. L’accordo non si limita al defense procurement ma include il trasferimento a Riyadh di tecnologia. 

[15] Il rischio di attriti è significativo. Data la posizione di Hezbollah che mette in gioco la sua credibilità, ed Israele che non intende recedere di fronte ad un gruppo definito terrorista. Anche uno scontro armato contenuto potrebbe risultare incontrollato per un errore di calcolo sulle linee invalicabili o per un errore operativo come un attacco missilistico o con droni. Mentre Israele coltiva la certezza di poter sconfiggere Hezbollah, è inverosimile che società private intraprendano investimenti esponendo personale e attrezzature in presenza di possibili coinvolgimenti nel fuoco incrociato.

[16] Per il Libano si apre la possibilità di dirimere le dispute riguardanti i confini marittimi con Siria e Cipro. Per Israele lo sfruttamento idrocarburico ne rafforza l’export e consolida Gerusalemme quale potenza gasifera mediterranea. L’’accordo potenzierà le collaborazioni energetiche con l’UE in base al memorandum d’intesa fra Israele, Egitto e UE con cui veniva stabilita cooperazione energetica reciproca, stabilendo un corridoio per le esportazioni gasiere da Israele verso l’Europa, passando per l’Egitto da dove trasportare il prodotto liquefatto. Pur nell’incertezza, gli USA rafforzano il loro ruolo da garante e consolidano un modello negoziale che potrà essere replicato in altre controversie simili nel Mediterraneo orientale, p.es. tra Cipro e Turchia.

[17] Opec, comprende diverse nazioni del MO; l’Arabia Saudita è il suo più grande produttore. La Russia è il più importante stato membro non OPEC nell’OPEC+.

[18] La Banca Mondiale ha da tempo reso noti gli stock del debito estero di fine anno, riferiti alla parte debitoria presa in prestito da soggetti esteri, individuando significativi aumenti egiziani, iraniani e turchi. L’Egitto ha investito ingenti somme in infrastrutture. L’Iran è in sofferenza per le sanzioni americane che costituiscono ostacolo agli investimenti stranieri. La Giordania è ugualmente in sofferenza, visto che oltre ai prestiti riceve anche ingenti aiuti economici dai Paesi del Golfo. Il Libano è in piena recessione, e la Siria sconta le conseguenze della guerra. La Turchia oscilla verso una crisi di liquidità dovuta al debito elevato con un’inflazione elevata. Anche lo Yemen paga le conseguenze del conflitto interno.

[19] La Banca europea per gli investimenti con l’iniziativa EU Global Gateway ha individuato i paesi mediterranei per la realizzazione di progetti in infrastrutture verdi e sostenibili.

[20] Gli investimenti dovranno essere pari ad almeno il 7% del PIL nei prossimi 5-10 anni per mantenere efficienti le infrastrutture esistenti e per crearne di nuove. 

[21] Israele rimane in attesa degli esiti delle negoziazioni del JCPOA; Gerusalemme è di fronte a due strade: se l’accordo verrà mai ripristinato con la revoca delle sanzioni, Teheran avrà nuove chance per la sua proiezione di potenza nella regione, altrimenti, se l’accordo fallisce, le prospettive atomiche iraniane aumenteranno scuotendo l’equilibrio militare.

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