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Le capacità iraniane di interdizione marittima

Dall’ottobre del 2023, la fazione sciita yemenita di Ansar Allah ha attuato una campagna di attacchi contro il traffico commerciale marittimo nello Stretto di Bab el-Mandeb. Una condotta che ha alterato le rotte commerciali globali, imposto costi economici e vincolato una parte significativa della potenza navale statunitense.

È un brusco promemoria sulla vulnerabilità delle strozzature da cui passano le vitali rotte commerciali marittime, dimostrando come questo influisca sulle catene di approvvigionamento globali. La weaponization di un choke point è un arma meno costosa e rischiosa ma con effetti altamente dirompenti.

Già nel 1897 Alfred T. Mahan scriveva che “i centri di interesse commerciale sono automaticamente centri di interesse politico e quindi di interesse militare perché rappresentano nodi di comunicazione”. Le sue intuizioni sul mantenere aperte le di comunicazione marittime a proprio vantaggio e sul precluderle agli avversari sono rilevanti oggi come in passato.

Un choke point, un passaggio fra due mari, si distingue per essere stretto, di lunghezza, larghezza e profondità variabile. Un’area che si presta ad azioni militari attraverso la posa di campi minati, l’impiego di sottomarini, piccole unità d’attacco e batterie di difesa costiera.

Un approccio adottato dai turchi per fermare il forzamento anglo-francese dei Dardanelli nel 1915. Il sistema di difesa si componeva di tre elementi interconnessi: i forti costieri, obici mobili e proiettori,  campi minati navali.

Il fuoco navale non fu sufficiente ad eliminare la minaccia dei forti, mentre le mine impedirono l’avanzata della flotta alleata. Le successive operazioni anfibie per eliminare i cannoni costieri e le operazioni di sminamento in mare, furono ostacolate dalle batterie di obici nell’ entroterra sia se condotte di giorno che di notte.

L’operazione di forzamento dei Dardanelli si concluse con un terzo della flotta anglo-francese messo fuori combattimento, rendendo necessario sbarcare un corpo di spedizione per dare inizio alla tragica campagna di Gallipoli.

Un’anticipazione con i limiti tecnici ed operativi dell’epoca, della moderna strategia di Anti-Access/Area-Denial: l’Anti-Access (A2) vuole impedire l’acceso nemico ad un’area di operazioni: l’Area-Denial (AD) cerca di impedire la libertà di azione nemica all’interno dell’area di operazioni.

Una domanda ricorrente nello studio della strategia è se i concetti strategici siano applicabili indipendentemente dal periodo storico e dall’evoluzione tecnologica. Tale domanda, va posta in relazione allo scenario dell’Iran che chiude lo Stretto di Hormuz al traffico marittimo, attuando un approccio simile a quello del 1915.

Un blocco iraniano dello Stretto di Hormuz potrebbe andare dagli attacchi asimmetrici ad un blocco totale di tipo convenzionale. Il sistema energetico mondiale sarebbe il centro di gravità dell’azione iraniana. La vicinanza geografica dei nodi di produzione, distribuzione e delle rotte di trasporto di petrolio e gas, avrebbe effetti destabilizzanti sull’economia globale nel caso di un blocco.

Teheran attuerebbe un’Unbalanced Warfare, combinando azioni convenzionali, operazioni speciali, tattiche di insurrezione e terrorismo. Un approccio asimmetrico per scoraggiare, negare, mitigare o negare l’uso di una forza militare schiacciante da parte di un nemico molto più potente ricorrendo all’A2/AD.

Tale approccio asimmetrico si adatta struttura ibrida del sistema militare iraniano, composta dalle forze regolari (Artesh) ed il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC), le cui rispettive componenti marittime rappresentano l’assetto strategico per minacciare la rotte marittime.

La strategia navale iraniana, quale estensione della strategia di difesa nazionale, cerca di scoraggiare un attacco marittimo, intensificare rapidamente il livello dello scontro se la deterrenza fallisce e se necessario condurre una guerra prolungata. Questi principi includono l’uso della sorpresa, l’inganno, la velocità, la flessibilità, l’adattabilità, il decentramento e unità altamente mobili e manovrabili.

Il focus è posto sulle capacità offensive asimmetriche a disposizione della marina per sconfiggere un avversario tecnologicamente superiore: unità d’attacco veloci; attacchi a sciame; operazioni speciali; guerra sottomarina; missili cruise e balistici antinave; mine navali; droni; proxy.

Per garantire la sopravvivenza di queste capacità in un conflitto prolungato con un avversario superiore, l’Iran impiega tecniche di negazione e inganno, quali mimetizzazione e occultamento, dispersione delle forze e strutture sotterranee.

Nello specifico, le capacità complessive di attacco a breve, medio e lungo raggio dell’Iran sono:

  • Missili balistici: CH-SS-8; Shahin-1/2; Nazeat; Oghab; Fateh-110/313; Qiam-1; Shahab-1/2/£; Zelzal; Zolfaghar; Emad-1; Ghadr-1/2; Sajjil-2; Khorramshahr; Fateh; Meshkat, Soumar, Hoveyzeh, Tolu,; Sejil, Qased, Mobin, Quds-351.
  • UAV/UCAV: Ababil 2/3/4; Mohajer 4/6; Light Mohajer 2; Meraj 313; Yasir; Shahed 123/129/133/141/181/191; Ababil-S; Ababil-T; Fotros; Hamaseh; Kaman; Kian; Karrar; Nazir, Raad; Sarir; Saegheh; Siraf; Sofreh; Mahi; Yasir; Ra’ad 85.
  • Loitering Munitions: Akhgar; Arash; Omid; Ababil T; Meraj 532; Shahed 131/136
  • Missili antinave – Seersucker; Ghader; Nasr; Kosar; Noor; Ra’ad; Khalij Fars ;Ghadir; Talayeh; Kosar; Ya Ali; Zafar; Khalij Fars; Hormuz-1/2.

In mare, l’IRIN e la IRGC possono contare complessivamente su 199 unità di superficie di vario tipo, 19 unità subacquee tra sottomarini e mini-sottomarini, centinaia di mezzi navali per attacchi veloci, una scorta di 5.000-6.000 mine navali di vario tipo.

Il punto debole dell’approccio asimmetrico iraniano è rappresentato dalle capacità aeree e di difesa aerea, basate su mezzi ormai antiquati di varia provenienza, pochi sistemi moderni acquistati in Russia e sistemi prodotti localmente che hanno dato scarsa prova di sé durante i recenti raid israeliani.

Nel caso in cui Teheran decidesse di bloccare lo Stretto di Hormuz, l’azione sarebbe condotta combinando azioni di abbordaggio e dirottamento in mare, il lancio di missili antinave, droni suicidi e, probabilmente, mine navali. Tali azioni potrebbero essere sporadiche e diluite nel tempo.

Come nel caso dei Dardanelli nel 1915, lo scenario peggiore sarebbe l’uso di mine navali, in quanto le operazioni di sminamento potrebbero essere efficacemente intralciate dal lancio di missili dalla costa e dall’uso a sciame di piccole imbarcazioni armate. Servirebbe, quindi, una forza navale di ampie dimensioni a difesa dei cacciamine, con tutti i rischi che una simile condotta comporta.

Un’azione militare per togliere il blocco dovrebbe prevedere una componente anfibia per eliminare i sistemi missilistici e le basi delle piccole imbarcazioni d’attacco, spesso protetti da strutture sotterranee disperse e ben mascherate e, quindi, resilienti contro gli attacchi di precisione a lunga distanza.

Tale opzione è necessaria in quanto, come dimostra la crisi di Bab el-Mandeb, ad un anno dai primi attacchi degli Houthi non si vede una soluzione all’orizzonte, mentre aumentano i costi economici e politici legati ad un impiego prolungato di uomini e mezzi in uno scenario che ricorda l’Afghanistan e l’Iraq.

Ma tale scelta, anche se fosse presa in considerazione, sarebbe complessa da attuare in termini militari e soprattutto politici, dato che difficilmente le monarchie del Golfo vi prenderebbero parte o la sosterrebbero per paura di rappresaglie iraniane, mentre anche tra i Paesi occidentali pochi sarebbero disposti ad affrontarne i costi materiali e morali.

I tempi per rimuovere le minacce potrebbero essere lunghi e comunque, visto quanto sta già accadendo a Bab el-Mandeb, in assenza di una forte coalizione internazionale disposta a contemplare anche la possibilità di operazioni anfibie, il problema potrebbe non avere una soluzione permanente e definitiva.

L’insegnamento da trarre è che la difesa del commercio globale e delle vie e passaggi attraverso cui esso si sviluppa, deve essere tra le priorità non solo degli Stati ma anche dei grandi forum politici globali, in quanto si tratta di mantenere sicuro il mare nella sua forma di common good essenziale per lo sviluppo ed il benessere collettivo.

Articolo a cura di Saverio Lesti, Cultore della Materia in Teoria della Politica Internazionale presso l’Università degli Studi di Firenze e Docente a contratto in Geopolitica e Maritime Security presso l’Accademia Navale di Livorno

Foto via social network

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