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Un “mortifero”resort in Siria

LA STRANA MORTE DEL GENERALE IVANOV

Villaggio turco di Çevlik, presso la frontiera siriana: 12 Agosto 2010. Il corpo saponificato di un uomo bianco di cinquantadue anni viene recuperato e portato a riva da alcuni pescatori locali. Il 31 Agosto il Telegraph, riprendendo un comunicato ufficiale del Cremlino, batte la seguente notizia: circa un mese addietro il Generale Yuri Ivanov, vicedirettore del GRU, è perito in un tragico incidente di nuoto. Il cadavere mostrava segni di essere rimasto in acqua per una decina di giorni e si è potuto provvedere ad una prima identificazione soltanto grazie alla croce che portava appesa alla catenina (evidentemente, come da tradizione russa, alquanto vistosa).

foto millyet.com.tr

Versione ufficiale del governo russo: il Generale Ivanov, in vacanza in un resort costiero presso Latakia, sarebbe accidentalmente annegato mentre si concedeva un bagno. Versione, però, in contrasto con quella proposta da altri report, chiosa il Telegraph, secondo i quali Ivanov sarebbe stato inviato in missione ufficiale in Siria, specificamente, presso la città costiera di Tartus, da cui Latakia dista una cinquantina di chilometri.

Il nome di Tartus può non suggerire granché al pubblico generalista, ma per il Cremlino significa molto: infatti, si tratta del secondo porto della Siria per volume commerciale, e, soprattutto, ospita una base di appoggio e rifornimento della Flotta russa del Mar Nero. Base le cui installazioni sono, al momento della morte di Ivanov, sottoposte a grandi lavori di espansione. Uno degli eterni miraggi della politica estera russa è quello di risolvere l’imbottigliamento cui i Dardanelli condannano la Flotta del Mar Nero: l’ambizione  è guadagnare infine libero accesso al Mediterraneo e, con esso, poter esercitare direttamente il proprio peso su questo bacino strategico.

foto offiziere.ch

Sfumato ripetutamente nell’Ottocento il miraggio del controllo degli Stretti con la forza, vale a dire l’annessione di Costantinopoli direttamente alla Russia o ad uno stato amico (quale la Bulgaria avrebbe potuto essere), non rimane che confidare nella compiacenza della nuova Turchia kemalista – comunque, all’epoca, saldamente inquadrata nella NATO – e tentare di guadagnare punti d’appoggio mediterranei. Tartus è uno di questi, in uno Stato – la Siria – tradizionalmente alleato dell’URSS prima e della Federazione Russa poi; la sua rilevanza politica verrà dimostrata circa un anno più tardi, nel Novembre del 2011 quando, imperversando oramai la guerra civile in Siria e pendenti le minacce di intervento da parte degli USA, in un nostalgico rigurgito di guerra fredda la Pravda annuncerà l’invio presso il porto siriano di una task force navale. Una forza non di secondo ordine, sebbene male in arnese, comprendente la portaerei Admiral Kuznetsov (nave ammiraglia della Marina russa) e relative navi di appoggio intese a segnalare l’inequivocabile appoggio di Mosca al traballante regime di Assad. Una sorta di riedizione moderna dell’ottocentesca politica delle cannoniere.

Ma procediamo con ordine, senza anticipare troppi fatti, e torniamo al Generale Ivanov, la cui morte accidentale desta più di qualche legittimo sospetto. Il GRU, acronimo di Glavnoye razvedyvatel’noye upravleniye (Direttorato principale di informazione) costituisce la più grande agenzia di intelligence della Federazione russa: operando alle dipendenze dello Stato Maggiore Generale delle Forze Armate della Federazione Russa, esso assomma le competenze che negli Stati Uniti sono ripartite fra i servizi segreti dell’Esercito, dell’Aviazione, della Marina e del Corpo dei Marines; ma a tali agenzie il corrispettivo russo aggiunge competenze SIGINT (intercettazione delle comunicazioni) che negli USA sarebbero appannaggio dell’NSA e che svolge grazie alla ragguardevole dotazione di circa 130 satelliti. A ciò si aggiunge il comando diretto di alcune unità Spetsnaz, i famosi reparti delle forze speciali in dotazione anche all’FSB (succedaneo del KGB: la forma cambia, il vecchio spirito resta).

Considerando la varietà delle mansioni e la cospicuità dei mezzi a disposizione il GRU, al di là della sua matrice militare, costituisce un tassello fondamentale della politica estera russa, specie di quella che non passa per i canali ufficiali della diplomazia: e che l’azione sullo scacchiere internazionale del Cremlino segua un doppio binario, quello ufficiale delle ambasciate e quello ufficioso dei servizi segreti, è realtà assodata sin dalla guerra fredda. Insomma, direttore e vicedirettore del GRU rappresentano a  buon diritto membri chiave dell’establishment governativo russo. Non sono uomini che ci si possa permettere di perdere con leggerezza, quantomeno per la sensibilità delle informazioni che sono soliti maneggiare. Ammettiamo per ipotesi che il generale Ivanov si stesse realmente godendo una vacanza balneare al caldo sole di Latakia, che Tartus e la sua base navale non c’entrassero affatto, che la destabilizzazione del regime siriano – deflagrata appena sei mesi dopo sull’onda della cosiddetta Primavera Araba – costituisse evento totalmente imprevisto dalle cancellerie mondiali nonostante i distinti scricchiolii degli anni precedenti.

Una personalità come il vicedirettore del GRU non si muove mai senza essere accompagnata da una cospicua scorta, specie in un paese straniero;  e che egli sia potuto annegare così impunemente durante una nuotata, in barba alla vigilanza dei suoi custodi, suona improbabile. Non impossibile, certo: la storia è piena di coincidenze e casualità che rimangono nondimeno tali, anche se ciò ripugna all’umana vocazione a trovare un senso più profondo negli avvenimenti. Marinus van der Lubbe appicca il fuoco al palazzo del Reichstag nel momento più favorevole perché il regime nazionalsocialista possa agitare lo spettro del pericolo rosso e così varare una serie di leggi liberticide; Hitler è asceso al cancellierato da nemmeno un mese, la tempistica gli è tanto propizia che per decenni generazioni di storici smaliziati avranno buon gioco (e buone ragioni) nel ritenere che il giovane comunista olandese sia stato il classico capro espiatorio di un gioco più raffinato. Eppure, oggi, tutto par suggerire che van der Lubbe abbia agito autonomamente, servendo casualmente al nazismo la prima delle sue molte vittorie.

Non va però dimenticato che l’antidoto all’incredulità di generazioni di critici si è nutrito di interrogatori, interviste, riscontri in accanite ricerche d’archivio da cui sempre più netta emergeva la solitudine del piromane; prima di queste verifiche lo scetticismo pareva essere la più ragionevole linea di condotta, non già dopo. Ragion per cui, essendoci preclusi simili accertamenti, neanche per noi sarà fuori luogo continuare a dubitare dello strano incidente del Generale Ivanov.

D’altronde Tartus, nei cui pressi l’uomo è stato visto per l’ultima volta prima di scomparire e riemergere cadavere, non sembra nuova agli “incidenti” di nuoto. È il 1 Agosto 2008 ed il Brigadiere Generale dell’Esercito Siriano Muhammad Suleyman si trova in vacanza nel suo chalet a Rimal al-Zahabieh, un resort di lusso nove chilometri a nord di Tartus regolarmente frequentato dagli alti esponenti del regime di Damasco. La dinamica dell’uccisione non è chiara: il Time riporta la notizia di alcuni colpi sparati da uno yacht avvicinatosi a poche centinaia di metri dalla riva, pur sottolineando che il beccheggio del natante difficilmente parrebbe compatibile con una così accurata azione di cecchinaggio. Gli israeliani Michael Bar-Zohar e Nissim Mishal, già autori di uno studio sulle operazioni speciali del Mossad, parlano invece di due cecchini che, calatisi in mare da uno yacht a circa un chilometro dalla costa, si sarebbero appostati sulla spiaggia per poi far fuoco sull’obiettivo: più credibile ma comunque indimostrabile, le “fonti confidenziali” di cui i due autori si avvalgono tali rimangono. Fatto sta che alle nove di sera Suleyman crolla fulminato da una micidiale salva di colpi che lo raggiungono alla testa, al collo e allo stomaco.

Foto AFP

Singolarmente letali, i resort costieri siriani, soprattutto per militari e spioni. Il Generale non è un uomo qualunque: proviene dalla minoranza alawita del paese, al pari del clan degli Assad al potere. Stretto confidente e braccio destro del presidente Bashar al-Assad, prima d’essere un militare Suleyman è un ingegnere, ascoltatissimo consigliere presidenziale in materia di armamenti ed  incaricato di supervisionare i più importanti programmi strategici del regime di Damasco: comparto missilistico, armi chimiche e batteriologiche.  Ma c’è chi specula, come Bar-Zohar e Mishal, che le sue competenze si estendessero anche al nucleare siriano: un passaggio importante e che conviene sottolineare, perché il dossier nucleare di Damasco tornerà ad emergere con insistenza nel corso di questo racconto.

Foto AFP

Soltanto un anno prima, il 6 Settembre 2007, un raid aereo israeliano ha portato alla distruzione del presunto reattore nucleare di Al Kibar, presso il villaggio siriano di Deir ez-Zor. Diciamo “presunto” perché inizialmente sarà la sola Tel Aviv a sostenere a spada tratta questa identificazione: Damasco, come naturale e prevedibile, smentisce con forza; ma anche Washington, ed è ciò che sorprende, tentenna. Soltanto nell’Aprile del 2008 l’amministrazione Bush rilascerà alla stampa il materiale fotografico teso a provare incontrovertibilmente come l’installazione siriana fosse costituita da un reattore nucleare prossimo al completamento grazie al fondamentale sostegno nordcoreano.

foto Israele.net

Se così stessero le cose si sarebbe ripetuto il copione del 1981 allorquando, sempre con un attacco aereo a sorpresa, Israele aveva demolito il reattore iracheno di Osirak: è la cosiddetta “dottrina Begin”, dal nome del primo ministro israeliano all’epoca dei fatti di Osirak. Un nome giornalistico per identificare qualcosa che in forma codificata non esiste: semplicemente Israele rivendica il diritto di condurre una politica “dura” di non proliferazione nucleare nell’area mediorientale, a mezzo di attacchi preventivi volti alla devastazione di installazioni nucleari in paesi potenzialmente o dichiaratamente ostili.

Quando la diplomazia internazionale fallisce nel portare a casa il risultato desiderato da Tel Aviv, si ricorre agli F-15. Questo, per inciso, rende particolarmente pericolose le tensioni che si consumano fra USA ed Iran attorno alla questione del programma nucleare di Teheran. Ed è nel corso degli ultimi anni della presidenza Bush – proprio gli anni di cui stiamo parlando – che si verifica una rapida escalation diplomatica. Se, nel caso di Washington, i pressanti impegni dettati allora dalla campagna afghana e dalle operazioni di countersinsurgency in Iraq (è del 2007 il “surge” orchestrato da Petraeus) inducono ragionevolmente a ritenere che quello statunitense sia poco più di un bluff per alzare la posta in gioco, quando alle minacce ed alle pressioni dell’amministrazione Bush si aggiungono quelle provenienti da Tel Aviv la questione assume subito una sua più incisiva e preoccupante concretezza.

Ma l’Iran non è la Siria o l’Iraq, astrazioni geografiche uscite dal righello dei diplomatici europei all’indomani della grande guerra: paesi condannati ad una costituzionale instabilità, tenuti insieme da nazionalismi di cartapesta e da regimi autoritari. L’Iran è un paese etnicamente e religiosamente coeso, da quattro a dieci volte più esteso di questi Stati, strategicamente posizionato a ridosso del vitale stretto di Hormuz ed in possesso di un rispettabile comparto militare. E, soprattutto, l’Iran è uno dei grandi produttori mondiali di petrolio, un paese con amici potenti; non soltanto la Russia, la cui amicizia, come s’è visto, non salverà la Siria dalla catastrofe, ma anche la più felpata Cina che con sempre maggiore interesse si affaccia, nella sua cronica fame di energia, alle risorse naturali di Teheran.

Questo è a grandi linee il contesto in cui si muove il generale Suleyman, l’altro cadavere eccellente della nostra storia: l’uomo che, se corrispondessero a verità le congetture mosse da alcune fonti, costituirebbe l’anello di raccordo fra Damasco e Pyongyang, dal cui know-how dipendono le sorti del nucleare siriano. È solo col costante flusso di componentistica e di tecnici di provenienza nordcoreana, infatti, che il programma nucleare di Bashar al-Assad può mantenersi in vita. Od almeno questo è quanto sostengono le fonti occidentali, le cui cognizioni dipendono da due colpi magistrali messi a segno dall’intelligence israeliana e statunitense: azioni su cui disponiamo di informazioni malsicure e nebulose – come sempre quando si parla di servizi segreti – costantemente a rischio di essere inquinate da strumentalizzazioni e doppi giochi.

Riguardo ad una di esse disponiamo del resoconto riportato dal Daily Telegraph in un articolo datato 15 Maggio 2011. La storia, poi suffragata dal resoconto steso dal duo Bar Zohar-Mishal nel già citato libro sulle operazioni del Mossad, è in breve la seguente: autunno 2006, il Mossad intercetta un alto responsabile del programma nucleare siriano in viaggio per Londra sotto falso nome. Subito sono inviate da Tel Aviv due squadre dirette verso la capitale britannica, una con il compito di eliminare l’obiettivo (tale lo scopo iniziale della missione), l’altra addestrata in operazioni di intercettazione; mentre la prima tallona l’uomo per le vie di Londra, la seconda fa irruzione nella sua camera d’albergo e si impossessa del laptop, ne scarica l’hard disk ed installa un trojan horse che assicuri il monitoraggio di tutte le future operazioni.

Quando il materiale così recuperato viene esaminato, a Tel Aviv si scoprono i progetti per il reattore al plutonio di Al Kibar, presso Deir ez-Zor; proprio la costruzione che i caccia israeliani bombarderanno appena un anno più tardi. Data l’importanza e la sensibilità delle informazioni recuperate si decide di non procedere più all’eliminazione dell’obiettivo, concludendo sia più utile tenerlo in vita per poterne seguire le tracce. Il secondo tassello del quadro d’insieme è invece costituito da una vicenda solo apparentemente più lineare: essa si compie pochi mesi più tardi, il 7 Febbraio del 2007, quando l’iraniano Ali-Reza Asgari scompare ad Istanbul dopo essere atterrato a bordo di un volo proveniente da Damasco.

foto theiranproject.com

Anche Asgari, come tutti i protagonisti di questo racconto, non è un personaggio di secondo piano: Brigadiere Generale nelle Guardie della Rivoluzione (i cosiddetti Pāsdārān, altrimenti noti per costituire l’ala dura del regime iraniano), è stato viceministro della Difesa fra il 1997 ed il 2005, entrando in tale qualità a far parte del gabinetto governativo del Presidente Khatami. Il primo comunicato ufficiale riguardante lo strano caso viene battuto dall’IRNA (Islamic Republic News Agency) il 6 Marzo: in esso il capo delle forze di sicurezza iraniane, Brigadiere Generale Esmail Ahmadi-Moghaddam, dichiara di ritenere possibile che Asgari sia stato rapito da un’agenzia di intelligence occidentale durante un viaggio di natura privata. A tale versione i media iraniani continueranno ad attenersi anche quando, a partire dal 7 Marzo e sull’onda di quanto svelato da Haaretz, i media occidentali inizieranno piuttosto a parlare di defezione.

Infine, l’8 Marzo, un articolo del Washington Post rivela che non solo Asgari avrebbe defezionato, ma che starebbe collaborando spontaneamente con i servizi segreti occidentali; notizia ulteriormente rilanciata dal Sunday Times l’11 dello stesso mese, quando si rivela che l’alto ufficiale si sarebbe deciso ad espatriare soltanto in preda al timore di essere stato infine smascherato come talpa, dopo aver passato informazioni al Mossad, od alla CIA, almeno sin dal 2003.

Qui si fermano le poche certezze di cui disponiamo e le stesse fonti occidentali iniziano a contraddirsi, con i servizi israeliani e statunitensi che giocano a rimpiattino: i primi sostengono che Asgari spiasse per conto della CIA, negando di averlo in custodia, i secondi affermano che fosse al soldo del Mossad e che sia presentemente detenuto in Israele. E contraddittorie, ovviamente, divengono anche le notizie circa la natura del contributo in termini di intelligence. Un particolare colpisce, soprattutto: la decisione con cui tutte le fonti occidentali si risolvono allora ad affermare l’estraneità di Asgari alla questione del nucleare iraniano, ribadendo piuttosto il suo contributo nell’illuminare organigramma ed operazioni di organizzazioni terroristiche come Hezbollah, della cui costituzione lo stesso Asgari era stato uno degli artefici in qualità di alto ufficiale della guardia rivoluzionaria nel Libano degli anni ’80. Un possibile punto di contatto, questo, con la figura e la fine del generale Suleyman, organizzatore per conto di Assad, fra le altre cose, anche del trasferimento di armamenti pesanti dalla Siria al Libano a beneficio di Hezbollah.

Due piani differenti ma non distinti si intersecano pertanto nel “trattare” Suleyman e Asgari: quello più evidente è la volontà di assestare un duro colpo a Hezbollah eliminando l’organizzatore della sua linea logistica in territorio siriano e portando al sicuro, al contempo, una solida fonte d’informazioni circa struttura, programmi e modalità d’azione.

Una lettura della vicenda verso cui sembrerebbe propendere anche il pressoché concomitante assassinio del libanese Imad Fayez Mughniyeh, considerato uno dei fondatori di Hezbollah ed universalmente stimato da amici e nemici come il suo comandante militare più capace: sua, a quanto pare, la regia di molti dei più devastanti attacchi terroristici susseguitisi fra gli anni ’80 e ’90. Fra questi, a Beirut, i due attentati del 18 Aprile e del 23 Ottobre 1983, rispettivamente contro l’Ambasciata statunitense e la locale caserma dei Marines; infine a Buenos Aires, il 17 Marzo 1992 ed il 18 Luglio 1994, suoi anche gli attacchi contro l’Ambasciata israeliana e contro la sede dell’AMIA (Asociación Mutual Israelita Argentina).

(Foto AP /Hezbollah Media Office)

Mughniyeh scompare a Damasco il 12 Febbraio 2008, saldando in aria con il SUV in cui si è appena accomodato: un lavoro molto professionale e “pulito”, nonostante il veicolo sia parcheggiato lungo una strada la detonazione reca agli edifici circostanti soltanto danni trascurabili. Qualcuno parla del Mossad, qualcun altro addirittura della stessa intelligence siriana: è un dato di fatto che tutte queste morti e questi colpi spionistici si collochino in una fase molto delicata della storia siriana, quella che precede immediatamente lo sprofondamento del paese nella guerra civile.

È un momento in cui il presidente Assad sembra giocare funambolicamente su due tavoli apparentemente inconciliabili: da una parte il nebuloso affare del nucleare siriano, dall’altra le timide aperture diplomatiche verso Israele alla ricerca di un processo di distensione che, tuttavia, non può che passare dalla decisione di prendere le distanze dall’Iran e soprattutto da Hezbollah. Da qui la doppia interpretazione che è possibile avanzare – e che è stata effettivamente avanzata – negli omicidi Suleyman e Mughniyeh: è opera israeliana oppure siriana? E in quest’ultimo caso, il tentativo è stato quello di ottenere mano libera nelle aperture diplomatiche verso Tel Aviv troncando la longa manus di Teheran in Siria e Libano? La seconda interpretazione convince solo a metà: è in grado di spiegare, al limite, l’omicidio del leader di Hezbollah, ma non di un membro dell’establishment siriano così organico ed apparentemente indispensabile, così vicino al presidente Assad (la fedeltà verso il quale non è mai stata messa in discussione) come il generale Suleyman.

Non rimane così che una seconda e più impervia lettura degli eventi, che sembra inserirsi ad ogni passo nella prima attraverso una serie di rimandi, allusioni, collegamenti: quelli che ruotano attorno al “mistero” del nucleare siriano ed alle sue implicazioni internazionali. Riferisce ad esempio lo Spiegel Online, in un articolo dell’11 Febbraio 2009, che secondo fonti dell’intelligence israeliana Mughniyeh, prima della morte, si apprestasse ad organizzare un attentato di rappresaglia per il bombardamento israeliano del presunto sito nucleare di Al Kibar.

Il collegamento fra questa vicenda e quella del generale Suleyman è lampante, stante sia l’acclarata contiguità di quest’ultimo con Hezbollah, sia il suo presunto coinvolgimento con il programma nucleare di Damasco. E quanto al generale Asgari, l’uomo sospeso fra Teheran e Washington (o Tel Aviv)? Si è visto come, a caldo, tutti abbiano avuto gran premura di ridurre il suo contributo spionistico – volontario o coatto non vi sarà mai modo di saperlo – alle sue conoscenze sul tema Hezbollah; eppure a giochi conclusi vi sarà qualcuno che riesaminerà in una prospettiva più ampia la sua vicenda. È il 26 Agosto 2010 ed il corpo del Generale Ivanov è riaffiorato da un paio di settimane. Sul quotidiano Yedioth Ahronoth, il primo in Israele per diffusione e tiratura, il duo di esperti di intelligence Bar Zohar-Mishal, che già abbiamo imparato a conoscere, pubblica un lungo articolo sulla genesi dell’attacco israeliano al reattore siriano di Al Kibar: si dà conto del colpo spionistico di Londra, della pianificazione e delle modalità del raid, infine dell’omicidio del Generale Suleyman. En passant solo un breve paragrafo, dal sapore molto vago a confronto dell’importanza dell’episodio (da cui intuiamo molte decisioni debbono esser dipese), è dedicato alla vicenda del Generale Ansgari. Se ben si ricorderà, tre anni prima la grancassa dei media occidentali, opportunamente imbeccata, aveva insistito su di un solo tasto: la profonda conoscenza di Hezbollah da parte del militare iraniano ed il grande contribuito che da questi ci si attendeva nel portare  a segno duri colpi all’organizzazione libanese.  Ora, invece, nulla di tutto ciò sembra essere più vero, nessun accenno al terrorismo; in due righe gli autori israeliani liquidano l’intera questione osservando, e con la massima naturalezza, che il contributo di Ansgari s’era situato su di un piano ben differente: il chiarimento dei complessi rapporti trilaterali fra Iran, Siria e Corea del Nord cementati attorno al programma nucleare di Damasco, dipendente non solo dal know-how nordcoreano ma, a quanto pare, anche dal generoso sostegno economico dell’Iran.

I programmi nucleari iraniano e siriano sono quindi ben distinti, ma a quanto pare in ambo i casi è sempre Teheran a pagare. Quanto ai rapporti fra Siria ed Iran, poi, non sarà il caso di insistere coi dettagli; che essi siano storicamente forti è dimostrato proprio da Hezbollah, un partito politico sciita che, in quanto tale, guarda a Teheran, pur dipendendo logisticamente da Damasco. Ma il vincolo esistente fra i due paesi è anche di carattere eminentemente personale, giacché la famiglia al-Assad ed il regime da essa instaurato sono espressione della minoranza alawita (sciita duodecimana) in un paese a maggioranza sunnita.

Concentriamoci ora sulla pista nordcoreana, terzo e fondamentale segmento di questa vicenda. Quanto è credibile l’esistenza di un’articolata cooperazione di natura “militare” fra Pyongyang e Damasco, oltre la facciata degli esibiti idilli diplomatici? Realtà o bluff dei servizi segreti occidentali? Perché, occorre sempre ribadirlo, la storia che stiamo raccontando può essere messa insieme solo cucendo stralci di notizie, soffiate, indiscrezioni, dichiarazioni al curaro tutte provenienti dal mondo dell’intelligence e, pertanto, tutte egualmente sospettabili: non già squarci sulla verità ma altrettanti depistaggi al servizio di specifiche agende politiche.

A seguito della consegna di almeno parte dell’arsenale chimico di Assad, la collaborazione fra siriani e nordcoreani nel programma chimico di Damasco può dirsi assodata. Per quanto riguarda il pacchetto nucleare, al contrario, nulla v’è di certo; almeno ufficialmente nessuna “pistola fumante” è nelle mani di Israele o di qualsivoglia cancelleria occidentale, sì che anche in questo caso l’unica tenue traccia è quella desumibile dai fatti ufficiosi, dalle fatalità e dagli “incidenti”. È il caso del disastro ferroviario di Ryongchŏn, occorso in Corea del Nord il 22 Aprile del 2004 e consistente nell’esplosione di un convoglio, diretto verso il porto di Nam’po, carico di non meglio precisate sostanze infiammabili: le speculazione vanno dal carburante, al propellente per missili, al nitrato d’ammonio per uso fertilizzante. Ufficialmente catalogato come incidente dall’intelligence sudcoreana, secondo fonti ufficiali nordcoreane esso miete 154 morti e 1249 feriti, portando inoltre – stante la valutazione della Croce Rossa Internazionale – alla distruzione di 1850 edifici ed al danneggiamento di altri 6350; la magnitudine del disastro (la cui scossa viene registrata dai sismografi e stimata pari a 3.6 Richter) potrà essere ben intuita dal fatto che l’altrimenti ermetico ed elusivo governo nordcoreano si sentì, nell’occasione, spinto ad appellarsi alle Nazioni Unite richiedendo sostegno internazionale.

foto media0.faz.net

Eppure vi è chi, come l’esperto britannico di servizi segreti Gordon Thomas, non crede nell’incidente; autore, fra le molte pubblicazioni, di un saggio sulla storia del Mossad, Thomas ha avanzato un’ipotesi ben diversa: ossia che l’incidente abbia costituito il risultato di un atto di sabotaggio dopo che l’intelligence israeliana era giunta ad appurare la presenza di una dozzina di tecnici siriani a bordo del convoglio. Complottismo spicciolo e sensazionalista? Prescindendo dalla reputazione di Thomas, che ovviamente non prova nulla nel merito della ricostruzione, gioverà però ricordare che l’autore britannico si è avvalso, nel tempo, di fonti di notevole interesse, fra cui gli ex agenti israeliani Ari Ben-Menashe e Rafi Eitan. Non è tutto.

Nate Thayer, giornalista investigativo specializzato in questioni nordcoreane, ha potuto inoltre accertare la presenza a Pyongyang, in concomitanza con l’incidente, dell’agente del Mossad Zev William Barkan. Come Thayer ha ricostruito in un suo articolo datato 20 Giugno 2013, Barkan era stato implicato nello scandalo che il 17 Aprile 2004, a circa un mese di distanza dallo svolgimento dei fatti, si era guadagnato le prime pagine dell’altrimenti sonnolenta Nuova Zelanda: protagonisti due cittadini israeliani – rivelatisi agenti del Mossad – imputati di aver tentato di ottenere illegalmente, nel mese di Marzo, passaporti neozelandesi a beneficio dello stesso Barkan.

Questi, contrariamente ai suoi colleghi, era tuttavia riuscito a far perdere le proprie tracce, riemergendo quindi nella capitale nordcoreana come detentore di un passaporto canadese intestato ad un certo Kevin William Hunter; di questo stesso documento era stato denunciato il furto nella città cinese di Guangzhou l’11 Aprile. Esattamente undici giorni dopo si verificherà l’esplosione di Ryongchŏn, apponendo i sigilli al nucleare siriano anche su quel fronte.

Ovviamente, come per ogni capitolo della matassa che si è andata sin qui illustrando, nulla depone contro la possibilità che simili coincidenze siano null’altro che coincidenze. Né interpretazioni alternative risulteranno impossibili: come su ogni ricostruzione fortemente indiziaria, pesa lo spettro di van der Lubbe. Pur tuttavia si è ritenuto che simili coincidenze risultino abbastanza significative da meritare di essere evidenziate, risultando compatibili con uno scenario ben diverso da quelli solitamente evocati. Uno scenario al quale dovrebbe essere concessa almeno una chance, ed  il cui filo conduttore sembra essere costituito dal nucleare siriano.

(Tutti i diritti riservati)

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