È in corso a Doha, in Qatar, la seconda mandata di colloqui tra il governo afghano e rappresentanti del movimento talebano. Complice anche la nuova presidenza Biden, il 2021 potrebbe essere l’anno della svolta per il conflitto in Afghanistan, che quest’anno compie vent’anni. La sanguinosa guerra condotta in quel paese è senz’altro la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti e dalla Nato. A vent’anni dall’inizio del conflitto, la situazione sembra tutt’altro che rosea. Ripercorriamo le tappe di quella che è senz’altro uno dei principali dossier dell’Alleanza.
L’11 settembre, una serie di attacchi suicidi condotti da terroristi islamici contro obiettivi civili e militari appartenenti agli Stati Uniti provoca la morte di oltre 2.977 persone e il ferimento di oltre 6.000. Il presidente degli Stati Uniti, George Walker Bush, accusa il gruppo terroristico Al Qaeda di aver organizzato e orchestrato gli attentati e pone una taglia di 25 milioni sulla testa del suo capo, Osama Bin Laden.
Il leader terrorista si trovava, in quel momento, in Afghanistan, all’epoca sotto il controllo del regime dei talebani, movimento politico e militare che aveva conquistato il potere in quelle terre nel 1996. La richiesta degli Stati Uniti di consegnare Osama Bin Laden viene respinta dal capo dei talebani, il Mullah Omar, il quale non intende procedere in tal senso senza prove concrete ed evidenti della colpevolezza del leader terrorista.
Enduring Freedom
Il movimento talebano, all’epoca, era un alleato di Al Qaeda, anche se non condivideva gli stessi obiettivi strategici, le stesse priorità e le stesse tattiche. Vista l’inflessibilità del Mullah Omar, il quale al massimo proponeva di far giudicare Bin Laden da una corte islamica, Bush decide di impiegare la forza. Il 7 ottobre 2001 lancia l’operazione Enduring Freedom. Ufficialmente, la missione si poneva lo scopo di “attaccare le capacità militari talebane e impedire l’impiego dell’Afghanistan come base di operazione”.
La campagna ideata da Bush per sconfiggere il regime talebano viene condotta tenendo bene a mente l’esperienza sovietica degli anni 1978-1992, quando le truppe di Mosca si trovarono impantanate per anni in un sanguinoso conflitto irregolare contro le milizie mujahidin, subendo più di 15 mila morti. Il Pentagono decide dunque di agire con una minima presenza militare sul terreno. La campagna è prevalentemente basata sul coordinamento tra piccoli nuclei di forze speciali sul terreno, accompagnate dai miliziani dell’Alleanza del Nord – coacervo di miliziani mujahidin – e gruppi armati afghani anti-talebani, supportate da un massiccio impiego dell’aviazione.
Bush si riferirà alla campagna condotta nell’ambito dell’operazione Enduring Freedom col termine “a different kind of war”. I bombardamenti americani e britannici – Londra è il primo paese a schierare 4.200 uomini in Afghanistan nell’ottobre del 2001 in sostegno all’alleato americano – sono alquanto efficaci e riescono a portare a compimento gli obiettivi della missione entro la fine dell’anno. Kandahar, l’ultimo bastione talebano nel Paese, cade nel dicembre del 2001.
Il 20 dicembre 2001, l’ONU autorizza la International Security Assistance Force (ISAF), una missione militare, inizialmente a guida britannica, poi dal 2003 guidata dalla Nato, condotta con lo scopo di “rendere il governo afghano capace di provvedere alla sicurezza del paese in maniera autonoma e di provvedere alla strutturazione di forze di sicurezza afghane in grado di impedire che il Paese possa tornare un santuario terrorista”. Nel frattempo, Hamid Kharzai viene scelto da un’assemblea di 1.550 delegati afghani come leader del governo ad interim dell’Afghanistan.
Il 2002 marca la fine della prima fase della guerra: la seconda fase, che terminerà nel 2008, vedrà uno sforzo militare americano ed alleato meno intenso, volto soprattutto ad eliminare le ultime sacche di resistenza di Al Qaeda nei territori più impervi della regione e a contribuire alla ricostituzione delle istituzioni afghane, in modo particolare le forze armate. Proprio in quell’anno, infatti, Bush annuncia un grande “Piano Marshall” per l’Afghanistan. Tra il 2001 e il 2009 il Congresso stanzierà ben 38 miliardi di dollari per l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze di sicurezza afghane. Nella primavera del 2003, l’allora Segretario alla Difesa americano, Donad Rumsfeld, dichiara “an end to major combat” in Afghanistan. La missione ISAF, fino a quel momento limitata alla città di Kabul, viene estesa a tutto il Paese e passata sotto la responsabilità dell’Alleanza Atlantica. È il primo impiego operativo dell’Alleanza al di fuori dell’Europa. Il focus degli Stati Uniti si sposta sull’Iraq, che viene invaso proprio quell’anno. In quel momento, sono 8 mila i soldati americani in Afghanistan, mentre la Nato schiera circa 5 mila unità.
Nel 2004, un’assemblea composta da 502 delegati afghani approva una costituzione per il Paese, un documento che prevede la creazione di una figura di un presidente forte in grado di unire tutte le varie etnie presenti nell’Afghanistan. In seguito alle prime elezioni democratiche svolte nel Paese, nello stesso anno Karzai è eletto presidente.
I talebani riprendono con intensità le loro attività immediatamente dopo le elezioni. Le tattiche usate dalle milizie irachene cominciano a diffondersi tra i talebani, che le impiegano con sempre maggior efficacia. Particolarmente letali sono gli attacchi condotti tramite IED (Improvised Explosive Device) o tramite l’impiego di miliziani suicidi. Tra il gennaio del 2005 e l’agosto del 2006 sono ben 64 gli attacchi suicidi perpetrati dai miliziani talebani e qaedisti in Afghanistan.
La presidenza Obama
Il 2008 segna una svolta nella condotta della guerra. Le elezioni vengono vinte da Barack Obama, candidato democratico che durante tutta la sua campagna elettorale ha sostenuto uno spostamento dello sforzo militare dall’Iraq all’Afghanistan, dove intendeva procedere all’implementazione di una strategia più aggressiva.
È quanto farà non appena vinte le elezioni.
Il neopresidente annuncia un massiccio invio di truppe in Afghanistan e affida al generale Stanley McChrystal l’elaborazione di una nuova strategia per la campagna. Il generale McChrystal propone un approccio tutto nuovo, basato sugli apprendimenti ricevuti in Iraq, territorio che conosceva bene, avendo comandato il Joint Special Operations Command (JSOC) dal 2003 al 2008, periodo durante il quale era riuscito a scovare ed eliminare il capo di Al Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi. La strategia che il nuovo comandante americano intende mettere in atto in Afghanistan è quella della controinsorgenza elaborata dal generale David Petraeus e messa in atto dallo stesso in Iraq con straordinario successo.
L’assunto principale del ragionamento del generale era che se la popolazione si fosse sentita sufficientemente protetta, essa avrebbe accettato con benevolenza l’intervento americano e si sarebbe schierata contro i talebani. Contemporaneamente alla nomina di McChrystal, Obama invia altri 17 mila uomini nel Paese, in aggiunta ai già 36 mila soldati americani e ai 32 mila soldati alleati già presenti. Il generale però chiarisce al presidente che per rendere attuabile la sua strategia sarebbero stati necessari altri 30 mila uomini: per poter proteggere la popolazione, infatti, i soldati americani avrebbero dovuto essere presenti in tutto il paese in maniera ben distribuita. Obama accetta e invia le truppe richieste. Il 1° dicembre del 2009, il numero di soldati americani in Afghanistan tocca il picco di 100.000 unità, mentre quelli della Nato raggiungono il numero di 40.000.
Il rinnovato slancio nella condotta delle operazioni comporta da subito un aumento esponenziale dei morti sul campo. Nei primi tre mesi del 2010 muoiono il doppio degli uomini persi l’anno precedente. Il generale McChrystal verrà rimosso poco dopo, nel giugno del 2010, in seguito alla pubblicazione di un lungo articolo pubblicato sulla rivista Rolling Stone, in cui venivano riportati commenti alquanto critici nei confronti dell’amministrazione Obama.
Sarà proprio il generale Petraeus, il creatore della dottrina americana della controinsorgenza, a prendere il posto di McChrystal. Intanto gli USA e la Nato continuano combattere con intensità contro i talebani e gli organici non smettono di aumentare. Tra il 2009 e il 2011, contro circa 40.000-60.000 talebani la Nato schierava 200.000 mila tra soldati americani, soldati alleati e membri delle società di contractors.
Nel maggio del 2011 Obama può annunciare un grande successo: l’uccisione da parte di un piccolo gruppo di Navy Seals del leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, scovato dalle unità americane nel villaggio di Abbottabad in Pakistan. Obama può sfruttare l’evento per imprimere una svolta al conflitto. Un mese dopo l’annuncio della morte del leader islamico, dopo che il Segretario alla difesa Gates aveva annunciato che erano in corso importanti colloqui tra i talebani e le autorità americane, Obama dichiara che gli Stati Uniti hanno ormai raggiunto l’obbiettivo che si erano posti nei confronti di Al Qaeda: il gruppo terroristico è stato disarticolato e ridotto ai minimi termini, il suo leader è stato ucciso.
Con grande fragore – meno di cinque mesi prima delle elezioni presidenziali egli Stati Uniti – Obama annuncia che le forze aggiuntive schierate nel 2009 sarebbero stati ritirati entro 15 mesi. L’anno successivo, la Francia annuncia il termine delle operazioni di combattimento del suo contingente schierato in Afghanistan.
Nel settembre del 2012 Obama dichiara che il surge da lui voluto quattro anni prima è ufficialmente terminato e che tutte le truppe da lui inviate nel Paese sono tornare in Patria. Le operazioni calano di intensità. I caduti americani nel 2013 sono meno di un terzo rispetto a quelle del 2011.
Nel corso del 2013 vengono siglati alcuni importanti accordi tra il governo americano e le autorità afghane che pongono le premesse per il passaggio di ISAF ad un’operazione di diverso tipo, condotta senza svolgere azioni di combattimento, col solo intento di contribuire ad addestrare e formare le truppe afghane. Nel giugno del 2013 l’esercito nazionale afghano assume formalmente la responsabilità delle operazioni di combattimento. Un mese dopo, Obama annuncia che la missione ISAF, ormai attiva da tredici anni, avrà termine entro la fine dell’anno. Quanto dichiarato da Obama viene formalmente realizzato il 28 settembre 2014. Gli USA manterranno sul terreno un contingente di 13.000 unità e avvieranno un’operazione, denominata Freedom’s Sentinel, col solo scopo di condurre operazioni di controterrorismo contro gruppi islamici radicali come ISIS e Al Qaeda e di garantire la crescita e l’addestramento delle forze di sicurezza afghane. L’operazione americana sarà affiancata dai contingenti dei paesi membri della Nato che opereranno nell’ambito della nuova missione denominata Resolute Support.
La presidenza Trump e gli accordi di Doha
Ormai la missione in Afghanistan è politicamente molto difficile da sostenere. Un brusco ritiro del contingente rischierebbe di provocare conseguenze simili a quelle a cui portò il ritiro delle truppe americane dall’Iraq nel 2011, con la nascita dello Stato Islamico. Nonostante il tema della guerra in Afghanistan rappresenti un tema molto impopolare negli Stati Uniti – durante la campagna elettorale nessuno dei candidati sosteneva un nuovo surge in Afghanistan –, il neopresidente, Donald Trump, inizialmente affida al Pentagono la messa in atto di una nuova strategia e acconsente alla richiesta di un aumento del contingente da parte del Generale John Nicholson Jr., comandante di Resolute Support dal marzo del 2016. Il Segretario alla Difesa, Jim Mattis, annuncia a settembre 2018 che il Pentagono invierà altri 4.000 uomini in Afghanistan. La decisione di Trump porta il numero di americani nella regione a 14.000. Uno dei principali architetti della nuova strategia del presidente è proprio il Segretario alla Difesa. Il Generale Mattis, insieme col Generale H.R. McMaster, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, vuole evitare che l’Afghanistan ripiombi nel caos.
Il 29 febbraio 2020 Trump raggiunge un risultato notevole. A Doha, in Qatar, vengono stretti importanti accordi tra i talebani e le autorità statunitensi. In intesa col governo americano, e senza consultare né il governo afghano, con cui i talebani ancora non vogliono parlare, né gli alleati, i talebani garantiscono che combatteranno Al Qaeda e l’Isis in Afghanistan, impedendo il ritorno di santuari terroristi nella regione. Gli Stati Uniti si impegnano a ritirare completamente le truppe dall’Afghanistan entro metà 2021. Un punto molto importante dell’accordo riguarda il rilascio di prigionieri talebani da parte del governo afghano. L’accordo firmato dalle parti parla di un numero di prigionieri talebani che si aggira intorno alle 5.000 unità.
La firma di Doha, tuttavia – a cui ha fatto seguito, nel giugno del 2020, una riduzione del contingente americano, ridotto a 8.600 uomini, e proseguito dopo l’estate, con la riduzione a circa 5.00 unità –, ha inaugurato una rinnovata ripresa della violenza da parte dei talebani nei confronti delle forze di sicurezza afghane. L’aumento degli attacchi talebani ha rappresentato un ostacolo rilevante al proseguo delle trattative col governo afghano. Probabilmente, la tattica dei talebani è quella di usare la violenza come tattica negoziale per ottenere maggiori concessioni dalla controparte. “L’unica leva su cui possono far forza nei negoziati è l’uso della violenza”, ha detto Rick Olson, ex rappresentante speciale americano per l’Afghanistan e il Pakistan. La seconda tornata di accordi, iniziata il 12 settembre 2020, è stata sospesa e rimandata all’inizio del 2021.
Un bilancio e le prospettive per il futuro
Oggi l’Afghanistan è giudicato il paese più triste del mondo. Nella classifica degli stati falliti, l’Afghanistan è il primo in Asia e il settimo al mondo. Dal 2014 al 2019, il pil del paese è cresciuto solamente del 2%. Nel paese dilaga la corruzione: con Nord Korea e Somalia, Transparency International lo giudica il paese più corrotto al mondo. La dipendenza del pil dalla droga è tornata ad aumentare. Oggi i proventi derivanti dalla vendita di droga di vario tipo rappresentano 1/8 del Pil. Nel 2019 la produzione di oppio è tornata ad aumentare (6 mila tonnellate). A livello globale, l’Afghanistan produce il 90% dell’oppio globale e l’80% dell’eroina che circola nel mondo. Più della metà della popolazione vive nella povertà più assoluta; tre afghani su quattro non hanno accesso all’acqua potabile.
Dall’inizio del conflitto, sono morti più dei 160.000 afghani, 2,5 milioni sono sfollati, 2,7 milioni sono in fuga da paese. Gli Stati Uniti hanno perso 2.400 militari, gli altri paesi alleati 1.100. L’Afghanistan ha perso circa 45.000 soldati negli ultimi cinque anni. La guerra, ad oggi, è costata agli USA circa 2 trilioni di dollari.
Militarmente, la situazione è peggiore di quella che si presentava quando ebbe fine il mandato di ISAF. Il governo afghano controlla i centri urbani principali, ma il resto del paese è fuori controllo, controllato dai talebani, che oggi contano circa 60 mila combattenti. Dalla fine del 2014, le forze di sicurezza afghane, che oggi contano circa 309.000 unità, hanno perso tra i 667 e gli 849 soldati al mese. Proprio l’anno scorso, nel giugno del 2020, si è registrata la più letale settimana dell’Afghanistan dal 2001, con 291 afghani uccisi e 550 feriti.
Immagine di copertina: A U.S. Marine with the Police Mentoring Team (PMT) attached to 2nd Battalion, 6th Marine Regiment, Regimental Combat Team 7 is conducting a routine security patrol in Marjah, Afghanistan, Sept. 20, 2010. Sixth Marine Regiment is deployed to Helmand province while in support of International Security Assistance Force. (U.S. Marine Corps Photo by Sgt Albert J. Carls/Released)